Quanto vale una vita spezzata

La lunga tragica scia di morti bianche ci accompagna da tanti, troppi anni. Non basterà aumentare i salari, ma compensi più alti aiuterebbero a diffondere il messaggio che ogni lavoratore è importante

Fulvio Ervas

Neppure nei noir più truci si può riprodurre l’orrore che scaturisce da una morte sul lavoro. Nella finzione narrativa un assassino agisce con deliberato scopo omicida, mosso da interessi, gelosie, vendette, dalla stessa follia. Ma proviamo a immaginare, nella vita vera, tre imprenditori intenti ogni giorno a scrivere un romanzo nel quale uno dei loro lavoratori si alza, fa colazione, saluta i suoi cari e non fa più ritorno a casa.

Proviamo a immaginare che tre lavoratori, ogni giorno, protagonisti di questa crudele lotteria, uscendo la mattina, debbano dire alla loro amata o al loro amato, seguendo il copione: «Hanno estratto il mio numero, oggi tocca a me». Che lacerazione del vivere!

Ricordo che ero uno studentello liceale quando mio padre, tornato a casa dalla Breda di Porto Marghera, i cantieri navali, ci raccontò che era successo un brutto incidente sul lavoro ed era morto un operaio, uno che conosceva bene. Fu un errore di pianificazione, in anni di sicurezza al minimo: dietro una parete, nel ventre della nave, da un lato c’erano i saldatori e dall’altro quelli che verniciavano a spruzzo. Scintille verso vapori: una tragedia.

È quindi una lunga scia che ci accompagna, quella delle morti sul lavoro. Abbiamo, temo, tutti dimenticato che il miracolo economico italiano, tra gli anni ’50 e ’60, era alimentato anche dal sangue dei lavoratori: si parla di dieci morti al giorno negli infiniti cantieri del boom.

La tormentata strada della sicurezza sul lavoro ha certamente ridotto la grandezza del fenomeno, benché non siano ancora trascurabili gli oltre mille morti all’anno, le centinaia di miglia di infortuni, le migliaia di malattie professionali derivanti, semplicemente, dall’offrire la propria energia vitale in cambio di una quota di denaro. È sempre difficile confrontare i dati di tali eventi con altri Paesi europei, dove comunque risultiamo tra i primi posti.

Ma che indicatore sono le morti sul lavoro? Che l’educazione alla sicurezza è come l’Achille che non raggiungerà mai la tartaruga? È un progetto collettivo che deve accontentarsi di risultati modesti perché i segnali di pericolo non sono rispettati, il personale non è adeguatamente formato, la segnaletica è affissa solo per obbligo formale e non corrisponde al controllo sui macchinari impiegati? Manca la giusta intensità dei controlli, per cui le misure di sicurezza sono solo l’impalcatura di uno spettacolo teatrale dove il rischio è continuo? Uno spettacolo in cui il biglietto d’entrata costa poco.

Molti lavoratori valgono poco, questo è il messaggio sociale

Proviamo, infatti, a riflettere su un altro aspetto: l’Italia, che possiede tante bellezze, ha anche un record non proprio entusiasmante, quello della cronica bassezza dei salari. Molti lavoratori valgono poco, questo è il messaggio sociale. Ed è proprio nei settori dove il salario è striminzito che si muore di più. È forse un caso che l’attività con più morti sia quella delle costruzioni? Ti pago poco e, forse, ti convinco che vali poco, che l’attenzione è una fatica in più, che tutte le misure di sicurezza sono fastidi, che fai un lavoro ingrato e con la testa sei altrove, immaginando un posto dove sei rispettato sul serio.

Forse non basterà pagare meglio per ridurre drasticamente queste tragedie. Ma un salario migliore che metta in moto la percezione virtuosa che il lavoratore è importante, quindi la sua vita è importante, forse, potrebbe essere sperimentato. E magari ci avvicinerà all’obiettivo di un “Made in Italy” senza sangue versato

Riproduzione riservata © il Nord Est