L’Italia affetta dal mal di merito
La patologia di cui è affetto il sistema-Italia appare chiara e nello stesso tempo difficile da aggredire. I dati dell’ottava edizione del “Report Meritometro 2024” disegnano i mali di un Paese a rischio desertificazione demografica
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Mal di merito, la patologia di cui è affetto il sistema-Italia appare chiara e nello stesso tempo difficile da aggredire. I dati dell’ottava edizione del “Report Meritometro 2024”, disegnano i mali di un Paese affetto da scarsa mobilità sociale, a rischio desertificazione demografica.
Libertà, trasparenza delle regole, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività dei talenti: questi parametri, che indicano il progresso reale e lo stato di benessere di una democrazia, vedono il nostro paese all’ultimo posto.
I 27 punti che ci vengono attribuiti dallo studio sono distanti anni luce dal posizionamento dei Paesi scandinavi (66 la Finlandia, 63 la Svezia, 62 la Danimarca), ma neanche il confronto con i Paesi mediterranei, più vicini a noi per abitudini e stili di vita, ci aiuta molto, se si considera che la Spagna ci distacca per quasi dieci punti.
L’avanzamento dell’Italia quando c’è, procede a passo di lumaca. Così, rispetto all’anno scorso progrediamo di soli 0,66 punti percentuali, mentre la crescita media dell’azienda Italia è di 0,5 punti nell’asset temporale che va dal 2015 al 2024.
Troppo poco per un Paese frenato dalle vischiosità burocratiche, spesso scarsamente permeabile all’innovazione, che continua a sprecare i suoi talenti dopo aver investito (l’aspetto più paradossale) somme ingenti per formali nelle proprie università.
Nel dettaglio la ricerca evidenzia una leggera curva di progresso solo alle voci “pari opportunità” e “qualità del sistema educativo”, rimane però alto il numero dei Neet, costituita dai giovani che vivono in sospeso in una condizione di attesa, mentre appare ancora penalizzata la condizione femminile, il Gender Equalty Sistem ci colloca infatti al 14esimo posto, sotto la media europea.
Ma è soprattutto l’allarme della Fondazione Nord Est sulla fuga dei cervelli che deve preoccupare: tra il 2011 e il 2023, 550 mila italiani in età compresa tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato il Paese, con un saldo negativo netto tra entrate e uscite di 337 mila.
Evidentemente il nostro “galleggiare”, per usare l’immagine del Censis, rasenta l’annegamento, se non corriamo ai ripari.
«Eppure - spiega Maria Cristina Origlia, presidente del Forum della Meritocrazia, giornalista con una consolidata esperienza di analista dei fenomeni socio-economici - il riconoscimento delle competenze, dell’impegno e della serietà professionale risulta essere una delle aspettative più forti che le persone, a partire proprio dai giovani, nutrono verso il mondo del lavoro. Tradirle significa non solo annientare la fiducia di intere generazioni verso la possibilità di costruirsi un futuro dignitoso e gratificante, ma anche privare il paese della principale forza di cambiamento».
Alcune Regioni, il caso dell’Emilia-Romagna, stanno cercando di reagire varando delle norme volte alla retention dei talenti, come la legge quadro numero 2/23 “Attrazione, permanenza e valorizzazione dei talenti a elevata specializzazione”.
«Un primo passo che andrebbe incoraggiato per creare una concorrenza virtuosa tra i territori - argomenta Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio conti pubblici, che insieme a Lorenzo Codogno ha scritto per il Mulino un saggio su Crescita economica e meritocrazia -. Rispettare il merito vuol dire osservare standard etici, migliorando la reputazione e la competitività del Paese».
La pervicace miopia delle nostre classi dirigenti sembra non accorgersene in una fase in cui la visione stessa del lavoro sta cambiando. I giovani esprimono una domanda di qualità, non si accontentano di una generica risposta di occupabilità.
Il lavoro dovrebbe rispondere a dei requisiti il più possibile coerenti rispetto al percorso di studio seguito, spiega un’indagine curata da Daniele Marini, sociologo dei processi economici dell’Università di Padova in una ricerca condotta insieme a Irene Lovato Menin, Il posto del lavoro: «Chi cerca occupazione valuta il lavoro che compra, non accettandolo acriticamente come avveniva in passato. Il denaro è il tempo, lavorare non a ogni costo, ma con giudizio è il nuovo must della Generazione Z».
Dietro numeri e statistiche si profila una rivoluzione culturale prima che economica di vasta portata che non richiede interventi spot, ma risposte di natura strutturale essendo in gioco i modelli della convivenza sociale e politica, che ormai condizionano il nostro essere nel mondo. Prendiamone consapevolezza se vogliamo scongiurare lo spettro del declino.
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