A cosa punta il revisionismo della premier
Si può solo immaginare con che spirito Sergio Mattarella abbia accolto Giorgia Meloni insieme a mezzo governo per il consueto pranzo alla vigilia di un Consiglio Ue


Si può solo immaginare (poiché dal Quirinale non trapela nulla se non che nessun faccia a faccia vi sia stato) con che spirito Sergio Mattarella abbia accolto mercoledì 19 marzo Giorgia Meloni insieme a mezzo governo per il consueto pranzo alla vigilia di un Consiglio Ue.
Proprio a lui, che spese parole inequivocabili quando celebrò l’ottantesimo anniversario del Manifesto di Ventotene nell’isola dove si posarono i primi germogli dell’Europa, è toccata questa sorte: ricevere a caldo il primo presidente del Consiglio che ha derubricato quell’afflato unitario a un’esposizione rivoluzionaria di parte, ideologicamente venata del virus socialista.
E questo in una Camera dei deputati risorta dalle ceneri del ventennio fascista grazie ai padri fondatori della Repubblica, cui si iscrivono gli autori del Manifesto, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni.
Un documento, diffuso grazie a coraggiose donne che lo riuscirono a ciclostilare per farlo conoscere al mondo, frutto delle riflessioni di tre intellettuali esiliati dal regime. Che celebrava il sogno di un’Europa federale sul modello degli Stati Uniti, un’Europa «libera e unita» per superare il «vulnus» di Stati sovrani geograficamente, economicamente, militarmente, che vivono in una situazione di perpetuo «bellum omnium contra omnes», di guerra tutti contro tutti, scriveva Colorni nella prefazione.
Ebbene, sarebbe superficiale considerare il gesto della premier solo un espediente tattico per distogliere l’attenzione dalle divisioni della maggioranza sul piano di riarmo europeo. Confermate dallo stop del capogruppo leghista Riccardo Molinari, «l’Italia non darà a Meloni il mandato di approvare il ReArm Eu».
Dunque si può dire che il primo obiettivo della premier fosse spostare il fuoco del dibattito dall’antieuropeismo di questo governo all’irrisolto problema dell’antifascismo.
Perché è indubbio che Meloni arriverà al Consiglio europeo senza un mandato chiaro, se non di interdizione di tutti i salti in avanti dei vari Macron, Starmer e von der Leyen.
I tre partiti di maggioranza in Italia hanno tre posizioni diverse e non è utile strombazzarlo. Ma non c’è solo questo: i meno severi con la premier interpretano l’uscita di Meloni come un fallo di reazione a una serie di attacchi ricevuti in questi giorni - sul mancato rispetto dei valori di Ventotene e del vero spirito europeo. Ma si può azzardare che vi sia un di più.
La leader di FdI ha voluto demolire un pezzo pregiato del pantheon europeista nel tentativo (portato avanti a più livelli: storico, culturale, di posti di potere) di scardinare l’egemonia di una sinistra che si sente depositaria dei valori fondanti della repubblica, nonché del sogno di un’Europa federale. Come a dire che il dogma non risiede solo da un lato, che il male si nasconde anche nei testi sacri come il Manifesto di Spinelli e il bene non lo decide una parte politica.
Estrapolando alcuni passi di quel testo - sulla rivoluzione europea che «dovrà essere socialista» sulla «dittatura del partito rivoluzionario» - frutto della condizione di costrizione di quei democratici ribelli, come si definiva Ernesto Rossi e del dovere di uscire dal gioco del totalitarismo, la premier ha voluto dare una connotazione anti liberale a un Manifesto celebrato in Europa (la sede del Parlamento Ue è intitolata ad Altiero Spinelli).
Con un’operazione di revisionismo storico mirata a colpire un bersaglio alto. Per far capire che nulla sarà più come prima, come Trump sta dimostrando, e che la nuova Italia deve adeguarsi. Tutta.
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