Se Roma non ha voglia di discutere di economia
Sembra che per il governo Meloni ogni altro tema sia più rilevante di una crisi ormai conclamata. La situazione è seria, non disperata: c’è spazio per intervenire. Ma serve essere concreti e lucidi
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Di cosa parliamo quando l’economia va male? Non dell’economia che va male, non almeno dalle nostre parti. L’attualità impone temi gravi, certo bisogna misurarsi con le guerre globali e totali, quelle contro i popoli e quelle commerciali. Giusto e inevitabile tenerle sul tavolo.
Eppure, mentre l’industria tracolla e le bollette volano, il guardare altrove del governo Meloni sa di paura e negligenza. Si discute di come premiare chi non paga le tasse oppure come regolare una giustizia ritenuta nemica della politica, di soluzioni tanto spettacolari quanto inutili per gestire migrazioni inarrestabili o prendere le distanze da un Tribunale che ci critica per aver rimpatriato un torturatore libico. Poco o nulla sul caro energia che da settimane – si assicura – verrà affrontato «nelle prossime settimane».
O sulle imprese che soffrono anche per un fisco arrogante e un’amministrazione che fa venire il mal di testa. Appena frattaglie per i problemi dei cittadini e delle aziende che sono il motore della Penisola. Si produce fumo propagandistico e si rinviano ricette salvifiche su cui a Roma nessuno mostra di ragionare seriamente.
Eppure non sarebbe difficile. Perché la situazione è seria e non disperata. Nel parlare di congiuntura e banche per un’ora all’Assiom-Forex, Fabio Panetta ha usato il concetto di «rischio» ben 43 volte, unendolo a sette ricorsi all’«incerto» e all’«incertezza», e alle 17 discese in campo di «difficile» o «difficoltà».
Potrebbe sembrare una condanna per il Bel Paese e tuttavia sarebbe un errore definire “pessimista” il governatore della Banca d’Italia, uno convinto che la difficoltà europea sia profonda, ma non ineluttabile. L’Italia gli sembra in grado di reagire alle crisi, uno Stato che «non può accontentersi di una crescita modesta».
C’è il Pnrr, ricorda, il magnifico stimolante che non ha fruttato come poteva e doveva. Osserva «un sistema produttivo di eccellenza», talenti «straordinari», risorse finanziarie «in abbondanza». L’Italia e l’Europa, assicura il banchiere centrale, «possono costruire il futuro con scelte coraggiose, visione e unità d’intenti».
Proprio così. Serve ambizione (nel senso migliore del termine) e la forza per credere in sé stessi. Lo scrittore francese André Malraux pensava che il coraggio non fosse altro che organizzazione. Di questi giorni si tratterebbe di organizzare i problemi e contrapporli alle soluzioni.
La lista di Fabio Panetta è semplice e non può essere altrimenti. Chiede a chi è al timone del Paese il risanamento dei conti pubblici, l’intervento sulla produttività e maggior cura all’innovazione. La sua idea è che non basti investire di più; occorre investire meglio. Spietato, il banchiere centrale ricorda a chi festeggiava i guai di Berlino che ora le problematicità dell’economia tedesca si stanno trasmettendo alla nostra, come prevedibile e previsto.
Ha giudizi di rispetto per la gestione dei conti pubblici e, pur ammettendo la frenata del Pil, non presagisce una recessione. Vorrebbe vedere il governo e tutte le parti sociali rimboccarsi le maniche, insieme con un’Europa da cui si aspetterebbe un Patto per la produttività con emissioni di titoli Ue che lo sostengano su obiettivi comuni.
La strada è questa. È rischiosa e difficile, però va percorsa. Si impone pragmatismo e lucidità, ai quali va aggiunta la concretezza. Parlar d’altro e rinviare i problemi non li risolverà. Perché le crisi hanno vita più lunga delle parole.
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