La perfidia dei tagli ai Comuni

I bilanci delle amministrazioni locali subiranno un salasso da otto miliardi di euro. A pagare il prezzo più alto, i Comuni sotto i 5 mila abitanti che sono 286 in Veneto, 153 in Friuli Venezia Giulia

Francesco Jori
Mario Conte, sindaco di Treviso e presidente dell'Anci Veneto
Mario Conte, sindaco di Treviso e presidente dell'Anci Veneto

Mani di forbice. Con l’ennesimo micidiale sfalcio ai già disastrati bilanci comunali, lo Stato riveste alla grande il ruolo di Edward, il ragazzo interprete di un famoso film del 1990 che al posto degli arti anteriori aveva delle cesoie.

È un salasso da ben otto miliardi di euro, come documenta l’Anci, l’associazione dei municipi: tre nei prossimi quattro anni, altri cinque dal 2031 al 2037; cui si aggiungono ulteriori funeste decurtazioni, incluse quelle per la messa in sicurezza dei corsi d’acqua e degli edifici pubblici; fino al blocco parziale del turn over del personale, con una rimpiazzo fermo al 75 per cento dei posti vacanti, in un contesto già da tempo sotto organico.

Come sempre, la perversa alleanza tra politica e burocrazia si concede pure la presa in giro, ricorrendo all’italiano più astruso, mascherando il termine “tagli” con “rimodulazione”: nella pratica, significa infilare le mani nelle tasche degli amministratori locali, e costringerli così a infliggere ai loro amministrati la perversa alternativa tra aumentare le tasse o ridurre i servizi. E siccome le prime quasi dovunque sono già prossime ai tetti massimi consentiti, la scelta ricade sui secondi.

Che vuol dire, in concreto, non poter più garantire la corretta manutenzione di strade, scuole e verde pubblico; diminuire i posti negli asili e nelle materne; compromettere gli interventi legati alla protezione civile; togliere risorse ai servizi sociali, oltretutto in una stagione di crescente impoverimento delle persone. E raschiare comunque il fondo del barile, a costo di dover aumentare le tariffe del trasporto scolastico.

Sono misure, quelle dello Stato, che ricadono in misura maggiore sui piccoli Comuni sotto i cinquemila abitanti: in tutto 5.520 (286 in Veneto, 153 in Friuli Venezia Giulia), sette su dieci. Dove il sindaco, per mandare avanti la baracca, deve fare di tutto: più d’uno provvede a guidare gli scuolabus, come ha già segnalato Mario Conte, primo cittadino di Treviso e presidente di Anci Veneto; oppure addirittura deve mettersi a sfalciare l’erba, come ha appena denunciato Nicola Zanca, sindaco di Gaiba, in provincia di Rovigo.

Sono paradossi che non si limitano al Nord Est, dove pure la carenza di organico è tra le più gravi: da tutta Italia arrivano notizie di sindaci costretti a rispondere al telefono, mettersi allo sportello, perfino svuotare i cestini. Negli ultimi quindici anni, il numero dei dipendenti comunali è sceso del 30 per cento; e le dimissioni spontanee sono più che raddoppiate.

Il peggio è che in materia si assiste a un indegno gioco delle parti, che dura da una vita. Alla sinistra, che oggi mette sotto accusa il governo di destra, va ricordato che negli ultimi dieci anni la spesa per i Comuni è scesa dall’8 al 6 per cento del Pil: in un arco di tempo dove si sono alternati otto governi di tutti i colori e schieramenti, tecnici compresi. E pure in passato il copione è rimasto identico: tradendo così in primo luogo la Costituzione stessa, che parla di una Repubblica basata sulle autonomie locali.

Dovrebbero rappresentare l’ultimo baluardo dello Stato; di fatto, tutti i santi giorni, i municipi grandi e piccoli sono ridotti a una barricata esposta su un doppio fronte: i cittadini che chiedono, un apparato centrale che toglie. Secondo il più perfido dei modelli amministrativi, lo sceriffo di Nottingham. 

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