Telecomunicazioni, i ritardi che lasciano l’Ue a terra

Se va bene, il Vecchio Continente sarà parecchio scoperto sino al 2030: è un problema grave per molti e gravissimo per un Paese, il nostro, dove le Telecom non sono quelle di una volta e la geografia denuncia un numero allarmante di “zone bianche” tagliate fuori dalla grande rete

Marco Zatterin

Capitali litigiose in Stati che giocano a fare le Nazioni, imprese sazie affette da una spiacevole forma di rischiofobia.

La debolezza dell’Europa satellitare si rileva in due frasi, scontate nella loro tragicità.

Il controverso flirt avviato fra l’Italia e Starlink per ottenere i galattici servizi della società spaziale di Elon Musk – confermato da Giorgia Meloni quale “istruttoria” in corso - ha riportato l’attenzione sul ritardo del club dei Ventisette nella realizzazione di un più che necessario sistema congiunto di comunicazioni sicure e moderne.

Se va bene, il Vecchio Continente sarà parecchio scoperto sino al 2030: è un problema grave per molti e gravissimo per un Paese, il nostro, dove le Telecom non sono quelle di una volta e la geografia denuncia un numero allarmante di “zone bianche” tagliate fuori dalla grande rete.

Si possono fare due cose. Si può dire che è colpa dell’Europa e chiedere aiuto agli americani. Oppure rimboccarsi le maniche e trovare soluzioni a Bruxelles.

La verità è che l’Ue è ciò che ne fanno gli Stati membri, colti anche stavolta con le zampette nell’aia intenti a litigare, spinti alla rissa dalle esigenze politiche locali più che ancorati a un solido interesse comune.

Lo si è visto nella genesi dei satelliti multiorbitali Iris², affidata in ottobre al consorzio SpaceRISE composto da Ses, Eutelsat e Hispasat (lussemburghesi, francesi e spagnoli) e appoggiato a un gruppo di subappaltatori fra cui Thales Alenia, Airbus, Telespazio, Deutsche Telekom. Ci sono voluti due anni di dispetti e litigi, in particolare sull’asse Parigi-Berlino.

Nel novembre 2022, quando i governi si sono accordati sul progetto, l’Ue era già in ritardo, priva di strumenti adeguati e con gli slot celesti in rapida estinzione. Non sono riusciti a “fare gli europei” e non potevano “fare gli americani”.

Starlink è un parto geniale di Musk e, al contempo, è un’impresa collaterale rispetto alla vera missione, i viaggi spaziali in tributo alla fede nel cosmismo visionario.

Il sudafricano ci ha messo quattrini a palate col consenso di Washington che adesso si rafforza. È stato svelto a sparare i satelliti ad appena 550 chilometri dalla Terra, dove vanno come fossero fibra ottica.

Ora è il playmaker in un business che, a uno che sogna Marte, appare paradossalmente accessorio. Gli europei hanno pagato la frammentazione. Ancora. Berlino ha duellato a lungo contro un progetto “troppo francese” e “troppo caro”, senza tentare di riequilibrare l’assetto di Iris². Fra i litiganti, nessuno ha goduto.

Il budget è raddoppiato a circa 12 miliardi e l’obiettivo della funzionalità nel 2030 è disputabile.

Poiché la transizione digitale implica connessioni moderne, diffuse e sicure, le capitali rischiano di cedere a un ordine sparso legittimo e pernicioso, come Roma tentata da Elon, il miglior amico dei conservatori.

I colossi spaziali europei, privi dei mezzi del concorrente made in Usa, faticano a liberare i miliardi che servirebbero, colpa anche della mancanza di indirizzo strategico. Si dovrebbe fare blocco insieme, subito, ma difficilmente sarà questo l’epilogo.

L’Unione è gestita giorno-per-giorno, di questi tempi. Troppi interessi nazionali e troppo gioco difensivo.

Oltre l’atmosfera, Musk se la ride come un novello Stranamore che, per vincere, non ha neanche bisogno di scommettere.

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