Toscani, ogni sua foto era un pugno alle coscienze
Quello di Toscani è stato lungo viaggio in un labirinto di professioni e di talenti a volte accidentato per il vizio della provocazione che quasi sempre coincideva con la verità
Audacia, audacia e ancora audacia. Si potrebbe sintetizzare così la parabola umana di Oliviero Toscani e con le stesse parole si potrebbe giudicare la sua opera. È invece più difficile dare un nome al suo lavoro perché è stato, il suo, un lungo viaggio in un labirinto di professioni e di talenti a volte accidentato per il vizio della provocazione, qualcuno direbbe dello scandalo o dell’arroganza, che quasi sempre coincideva con la verità.
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Toscani è stato fotografo, pubblicitario, politico, conduttore radiofonico e televisivo, opinionista. Sempre con una riflessione in più di ogni suo interlocutore, con me o contro di me, che sbagli o sia nel giusto non ha importanza.
Non era facile avere a che fare con Oliviero Toscani, ti travolgeva già con la sua forza fisica e ti guidava in un mondo della comunicazione pirotecnica mai incontrato prima, un’autentica rivoluzione dal basso che trovava la sua forza e la sua linfa nella società.
Era sotto i nostri occhi incapaci di vedere e pieni di paura. Lui raccontava la quotidianità, le sue bellezze e le sue tragedie. Questo mondo era tutto davanti a noi, ma solo Toscani ha avuto il coraggio di maneggiarlo e di esaltarlo sulla carta patinata delle più importanti riviste di moda e a pagina intera sui principali giornali italiani e stranieri.
Ogni campagna era uno sparo di Oliviero il rivoluzionario. La mafia, l’omofobia, l’Aids, l’anoressia, il razzismo, la pena di morte, le guerre. E noi. Quello che eravamo, non quello che ci illudevamo di essere nei “caroselli” tradizionali di famiglie felici e seppur geniali mariti in ammollo.
Toscani semplicemente vedeva il visibile: le ingiustizie, la povertà, la malattia, il dolore. Ho sempre detto banalità, sosteneva, ma sono un uomo libero e gli uomini liberi fanno paura. Nell’usare le immagini sfiorava la brutalità.
Ogni sua fotografia era un pugno che non ci metteva kappaò ma ci tormentava a lungo, mentre lui restava un passo indietro a guardare quanto ci aveva fatto male. Voleva raggiungere il nostro cuore, risvegliare i nostri sentimenti, consapevole, tuttavia, che si sarebbe trattato di uno stato di grazia transitorio. Non nutriva grande fiducia nei suoi simili e sapeva che anche i sentimenti hanno una loro giovinezza, che con il trascorrere del tempo passano con estrema leggerezza all’abitudine e al conformismo.
Aveva molti estimatori e forse un egual numero di detrattori, pochi ma importanti amici. Con la rivista Colors e poi con Fabrica ha seminato nei giovani parte delle sue convinzioni e della sua arte. Sempre con la sua ferocia bonaria, l’ossimoro che lo conteneva. Dubitate di chi vi racconta di avere delle idee, diceva, la storia è piena di idee sfornate da uomini che hanno causato disastri e genocidi: l’idea è quasi sempre pericolosa.
L’artista per Toscani non ha bisogno di avere idee, è un’idea egli stesso. Cammina, pensa, produce, vive. Artista era il nome che più si sentiva cucito addosso, un vestito indossato la prima volta a quattordici anni, quando a Predappio scattò una fotografia di Rachele Mussolini alla tumulazione del duce, un’immagine che fece il giro del mondo.
Refrattario alle maschere, Toscani ha gestito senza veli anche il proprio finale di partita, annunciando la sua morte con due anni di anticipo. Era anch’essa visibile nel corpo, impossibile da rimuovere o da nascondere. La morte non mi spaventa, ha detto, ho vissuto troppo e bene, sono stato addirittura viziato.
Convinto nel suo finto cinismo che tra qualche tempo nessuno si ricorderà di lui ci ha dettato un perfetto testamento morale: «Mi pento non di quello che ho fatto, ma di ciò che non sono riuscito a fare».
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