Tra dazi e guerra, il taglio dei tassi aiuta a sperare nella ripresa
La decisione della Bce è segno che sulla scena economica si possono intravedere sputni positivi. I pericoli si chiamano stagnazione e inflazione

L’economia europea veleggia davanti al Capo di Buona Speranza, assicura Christine Lagarde. Attraversa un passaggio in cui si scontrano due fronti, uno di acqua calda – cioè i tassi in discesa e i ricchi cantieri di investimento “made in Ue” – e uno di acqua fredda – ovvero le tensioni commerciali di imprevedibile matrice trumpiana che si accoppiano diabolicamente con le insidie geopolitiche e la guerra in Ucraina. Lo scenario è incerto, la tempesta è possibile, tanto che la presidente Bce taglia le previsioni 2025 per il Pil dell’Eurozona dall’1,1 allo 0,9%. Rischiamo stagnazione e inflazione in ripresa.
Eppure, a ben vedere, qualcosa di positivo anima la scena e, ad avere il coraggio di rimboccarsi le maniche e rinunciare alle lamentele, si possono trovare ragioni di fiducia per una sfida non semplice con cui sarebbe sbagliato non misurarsi.
Aiuta mettere gli elementi in fila. Il primo incentivo è il taglio dei tassi deciso giovedì 6 marzo a Francoforte, scesi di 25 punti base per la sesta volta dal giugno scorso. Spiace vedere che il putiferio scatenato dal nuovo inquilino della Casa Bianca abbia scritto la parola fine alle riduzioni del costo del denaro che possiamo dare per scontate. La politica commerciale statunitense si rivela intessuta di decisioni e dietrofront, di parole roventi quanto irrispettose delle esigenze di stabilità.
L’annuncio dei dazi su Canada, Messico e Cina ha bruciato centinaia di miliardi di capitalizzazione nelle borse globali, salvo poi essere rivista e sospesa in parte, con una mossa che ha il profilo teorico dell’aggiotaggio. Ora la Bce deciderà riunione per riunione, intanto imprese e cittadini si mettono in tasca un altro quarto di punto di sconto concreto. Male non fa.
Se si aggiunge la Zeitenwende, la “svolta epocale” che ha convinto Friedrich Merz, cancelliere tedesco in pectore, ad allentare i vincoli di bilancio per investire nella Difesa e creare un fondo da 500 miliardi come leva keynesiana per le infrastrutture, la prospettiva collettiva guadagna interesse. Il leader tedesco sembra aver smesso la maschera del falco ed è disponibile, anche per ragioni di geopolitica e militari, a ripensare i limiti di spesa europei, cosa che l’Italia chiede con forza e disordine. Davanti al Pil piatto, e sotto le bombe mediatiche di The Donald, Berlino pare aver compreso che a stringere troppo il cordone della borsa si stringe anche il cappio intorno al collo della congiuntura.
Mai visti così tanti soldi per l’economia europea. Il Green Industrial Deal, qualunque sia la forma in cui sarà approvato con sicuro travaglio, si ripromette di mettere al servizio della transizione verde almeno 50 miliardi. Sino a 800 miliardi potrebbero nel medio termine arrivare dallo sforzo europeo - nazionale - privato per l’industria della Difesa e l’aerospazio. Con meno zeri, contano anche i 2,8 miliardi per l’industria dell’auto, ciliegina sulla ricca torta che i governi europei vogliono infornare al più presto.
È un cantiere aperto, sia chiaro, però con la Germania di buon buzzo ha senso cedere alla tentazione di credere. Dato che la nave Ue incrocia il Capo di Buona Speranza, che i marosi sono figli dell’apprendista stregone di Washington, che i dazi potrebbero infiammare l’inflazione e bloccare la discesa ulteriore dei tassi, istituzioni, politica e imprese devono perlomeno cercare di prendere il vento e l’acqua giusti. Non è detto che funzioni, le variabili sono tante e alcune hanno i capelli gialli. Ma il vero disastro sarebbe non provarci.
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