I tre silenzi calati per nascondere un Paese sconfitto

Internazionale, di Stato e di partito: una rimozione collettiva dei fatti “indicibili” solo per far funzionare l’operazione di presentare l’Italia del 1945 come vincitrice

Gianni Oliva
La foiba di Basovizza durante le celebrazioni del Giorno del Ricordo (foto Lasorte)
La foiba di Basovizza durante le celebrazioni del Giorno del Ricordo (foto Lasorte)

Nel pomeriggio di mercoledì 12 febbraio, a Gradisca d’Isonzo (Gorizia), lo storico Gianni Oliva sarà protagonista di un incontro su “La complessa vicenda del fronte orientale, 1914 – 1954”. Oliva interverrà tenendo una lezione. Quello che segue è un estratto della sua relazione.

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I fatti sono noti nei loro contorni generali. Dopo una prima ondata di “infoibamenti” avvenuta in Istria nel settembre 1943, all’indomani dell’armistizio e dello sbandamento del Regio Esercito, una nuova ondata repressiva, più brutale e capillare, si sviluppa nel maggio-giugno 1945, quando le forze partigiane titoiste occupano Trieste prima dell’arrivo degli anglo-americani e stabiliscono su tutto il territorio proprie autorità amministrative.

Obiettivo di Tito è l’annessione alla nuova Jugoslavia comunista di tutte le terre mistilingue del confine nordorientale dell’Italia, dall’Istria, a Trieste, a Gorizia, a Monfalcone, con la linea di frontiera fissata sul fiume Isonzo: per vedere riconosciuta la legittimità di queste aspirazioni al tavolo della trattativa di pace, il nazionalcomunismo titino ha bisogno che nessuno difenda l’”italianità” di quei territori, che la comunità italiana sia decapitata della sua classe dirigente.

Di qui il fenomeno noto come “foibe”, con migliaia di cittadini prelevati dalle proprie case, eliminati e con i cadaveri occultati nelle grandi fenditure tipiche del paesaggio carsico. La quantificazione delle vittime è oggetto da decenni di discussione perché nelle situazioni di emergenza nessuno tiene la contabilità dei morti. Il numero più accreditato indica circa 8-10 mila “infoibati” (assommando sia gli “infoibati” veri e propri, sia i caduti nei combattimenti), vittime di una strage etnico–politica: “etnica” perché colpisce cittadini italiani, “politica” perché all’origine c’è la volontà di eliminare le voci che possono opporsi all’annessione.

Dopo il 12 giugno 1945, quando i Tre Grandi (Usa, Urss e Gran Bretagna) stabiliscono il confine sulla “linea Morgan” (pressoché coincidente con i confini attuali tra Italia e Slovenia e così chiamata dal nome dell’ufficiale britannico che la traccia sulla cartina), viene meno la ragione politica degli “infoibamenti”, che cessano rapidamente: inizia però un altro fenomeno, destinato a durare a fasi alterne per oltre un decennio: l’esodo.

La maggior parte degli Italiani che si trovano a vivere in territori diventati jugoslavi, sentono che “da quella parte” per loro non c’è futuro e che il processo di slavizzazione è destinato a travolgerne la comunità: di qui la decisione di abbandonare i paesi di origine e di trasferirsi in Italia, dove i profughi vengono ospitati in 109 campi di accoglienza sparsi in tutta la penisola (caserme dismesse, ex campi di prigionia, colonie agricole abbandonate, baraccamenti provvisori). Questo fenomeno coinvolge circa 250/280 mila persone, oltre l’80% degli Italiani che prima della guerra risiedevano in Istria, Dalmazia e negli arcipelaghi dell’Adriatico settentrionale.

In totale circa 8 mila morti e 250 mila profughi, numeri che la storia italiana non ha mai conosciuto in tempo di pace: dunque, perché non se ne è parlato per decenni? E perché ancora oggi, a quasi 80 anni dai fatti, l’argomento suscita spesso polemiche e strumentalizzazioni politiche? La risposta sta in tre diversi silenzi che hanno reso l’argomento “indicibile”. Silenzio internazionale, silenzio di Stato, silenzio di partito.

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Perché possa funzionare l’operazione di presentare l’Italia del 1945 come paese vincitore, non è sufficiente l’autocelebrazione dell’antifascismo: occorre anche (e forse ancor più) rimuovere dalla memoria collettiva tutto ciò che ricorda la sconfitta.

Nascono così i silenzi, le negazioni, le pagine indicibili della storia nazionale. “Indicibili” sono i prigionieri di guerra, circa un milione e trecentomila uomini che hanno vissuto le prigionie più diverse nei campi di tutti i paesi belligeranti, e che sono l’immagine vivente della sconfitta (ancora oggi mancano dati esaustivi sul loro numero, sui decessi nei campi, sulle modalità della detenzione).

“Indicibile” è la realtà dell’occupazione italiana nei Balcani e nella Francia meridionale, sbrigativamente liquidata con il rinvio al mito rassicurante (e falso) degli “Italiani brava gente”.

“Indicibili” sono i presunti criminali di guerra italiani, centinaia di ufficiali e funzionari accusati di aver commesso crimini contro i civili e per i quali nel dopoguerra viene negata l’estradizione nei paesi che vogliono processarli (dalla Jugoslavia, all’Albania, alla Grecia, all’Etiopia).

Ma “indicibili”, soprattutto, diventano le foibe e i profughi giuliano, dalmati e fiumani. Nessun paese vincitore subisce, dopo la fine del conflitto, il ridimensionamento del proprio territorio, né la strage di migliaia di cittadini, né la fuga di centinaia di migliaia di altri.

La situazione del confine nordorientale rappresenta il terreno di confronto più scomodo e destabilizzante, perché è la dimostrazione evidente che l’Italia è uscita sconfitta dalla guerra. A differenza di quanto accade nel resto della penisola, la Venezia Giulia resta sotto amministrazione militare sino al 15 settembre 1947, quando entra in vigore il Trattato di pace.

In virtù delle clausole stabilite a Parigi, il Goriziano e il resto del Friuli sono restituiti alla sovranità italiana, mentre Trieste e il suo circondario vanno a costituire la Zona A del Territorio libero di Trieste, che continuerà ad essere amministrata dagli Alleati sino al 26 ottobre 1954. Ciò che si trova ad oriente di quest’area diventa invece territorio jugoslavo. Il peso della sconfitta viene dunque pagato interamente sul confine nordorientale, prima con la strage delle foibe, poi con le annessioni alla Jugoslavia e il conseguente esodo.

Tacere sugli infoibati e sui profughi, relegarli a memoria locale giuliana senza farli entrare nella coscienza collettiva, ghettizzare gli esuli istriani e dalmati nei campi di accoglienza senza lasciare emergere la loro vicenda politica ed umana è la risposta più facile e immediata per non parlare del Trattato di pace, della diminuzione della sovranità nazionale, del fatto che l’Italia è a tutti gli effetti un paese sconfitto.

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