Confini e integrazione, principi da tutelare

Uscite come quella di Trump legittimano l’idea che i confini possano essere messi in questione. Ma i principi intoccabili devono essere l’integrazione fra tutte le genti che vivono all’interno di ogni Paese e fra i diversi Paesi

Gianpiero Dalla Zuanna
Donald Trump, presidente eletto degli Stati Uniti
Donald Trump, presidente eletto degli Stati Uniti

L’uscita di Trump sulla possibile annessione da parte degli Usa della Groenlandia, del Canada, del Canale di Panama, e di altro ancora, può sembrare una smargiassata, oppure una tecnica mediatica per alzare la posta nella trattativa per il controllo di rotte commerciali, risorse minerarie (di cui la Groenlandia e ricca) e quant’altro.

È però qualcosa più grave di quel che potrebbe sembrare. Queste uscite – quando a farle è l’uomo più potente della terra – legittimano l’idea che i confini possano essere messi in questione, come è accaduto per le guerre balcaniche degli anni ’90, le guerre nel Caucaso di Putin, l’aggressione russa contro l’Ucraina. E perché l’Italia non dovrebbe riprendersi l’Istria e la Dalmazia?

I confini non debbono essere toccati, o vanno discussi solo attraverso trattative diplomatiche.

Condivido il bellissimo intervento di Martin Kimani, ambasciatore del Kenya all’Onu il 22 febbraio 2022, in occasione della seduta sull’aggressione russa in Ucraina: «Il Kenia, come quasi ogni altra nazione africana è nato dalla fine degli imperi. I nostri confini non sono stati tracciati da noi, ma a Londra, Parigi, Lisbona, senza alcun riguardo per gli insediamenti delle antiche nazioni, i cui territori sono stati divisi e sventrati. Oggi, al di laà dei confini di ogni singolo stato d’Africa vivono persone con le quali condividiamo profondi legami storici, culturali, linguistici. Se al momento dell’indipendenza avessimo scelto di creare degli Stati basati sulla omogeneità etnica e razziale, avremmo innescato decenni di guerre sanguinose. Invece, abbiamo deciso di tenerci i confini che ci erano stati assegnati senza consultarci e di non interpretarli come barriere, ma come una sfida per perseguire una integrazione politica, economica e sociale a livelli più ampi e più alti. Al posto di formare nazioni con lo sguardo rivolto al passato, sulla base di una pericolosa nostalgia, abbiamo deciso di guardare al futuro, alla ricerca di una grandezza che nessuno dei nostri popoli ha mai ancora conosciuto e nessuna delle nazioni originarie sarebbe stata in grado di sognare. Abbiamo scelto di seguire le regole dell’Organizzazione per l’Unità Africana e lo Statuto delle Nazioni Unite, non perché i nostri confini ci soddisfano, ma perché vogliamo qualcosa di più grande, forgiato nella pace. Crediamo che tutti gli stati nati dagli imperi che sono crollati o si sono ritirati, hanno al loro interno una molteplicità di popoli desiderosi di integrazione con i popoli circostanti. Questo è normale e comprensibile; in fin dei conti chi non vuole unirsi con i propri affini con i quali condividere e realizzare progetti e visioni comuni? Ma al tempo stesso il Kenya ha rifiutato questa scorciatoia alla convivenza, specialmente là dove comporterebbe il ricorso alla violenza e alla guerra. Dobbiamo agire nel senso di una più ampia inclusività, in modo tale da non incorrere in nuove forme di dominazione e di oppressione».

Integrazione fra tutte le genti che vivono all’interno di ogni Paese, e fra i diversi Paesi. Questi due principi debbono essere intoccabili, altrimenti è inevitabile ritornare alle logiche di dominio che hanno insanguinato l’Europa e il mondo intero fino alla Seconda Guerra Mondiale. 

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