Lacerati ottant’anni di atlantismo
Tra le due sponde dell’Atlantico non è in corso un fortunale passeggero ma un devastante uragano che rischia di affondare ottant’anni di relazioni Europa-Usa

L’umiliazione inferta a Zelenski da Trump, che reclama una “pace” comunque, dunque una capitolazione dell’Ucraina in nome del privilegiato rapporto del tycoon con la Russia di Putin, finanziata da un accordo capestro sulle terre rare di Kiev che assomiglia a un pagamento per i danni di guerra, non tanto al paese aggredito ma al bilancio degli Stati Uniti – il tutto senza nemmeno associare gli ucraini alla trattativa e impegnarsi a garantire la loro sicurezza-, conferma che quello in corso tra le due sponde dell’Atlantico non è un fortunale passeggero ma un devastante uragano che rischia di affondare ottant’anni di relazioni Europa-Usa. Parole e gesti del clamoroso scontro alla Casa Bianca sono eloquenti. Di fronte a una simile scena, quelli che sino a poche settimane fa sarebbero stati definiti valori occidentali, non sono che bandiere nella polvere.
Di fronte alla stordente accelerazione imposta dall’irruzione del “nuovo” Trump, le classi dirigenti europee si chiedono, dividendosi sulla risposta: il trumpismo rappresenta, o meno, la fine dell’America come l’abbiamo conosciuta? E durerà? In tal caso, che fare? Dalla risposte che verranno date derivano diverse opzioni.
Per i continuisti il Trump 2, non sarà molto diverso dal Trump 1. Dopo che l’onda lunga del sovranismo a stelle e strisce si sarà consolidata internamente, tutto riprenderà, se non come nell’Età dell’Oro, almeno in maniera gestibile. Questa corrente minimizzatrice ritiene che l’America non potrà fare a meno dell’Europa e le relazioni saranno solo un po’ più sbilanciate a suo favore.
A giudizio dei discontinuisti, invece, quanto accade è difficilmente sanabile. La rottura è evidente nel rovesciamento delle posizioni Usa su Ucraina e Russia; nell’inaudita prospettiva di una “Gaza americana” e del via libera, di fatto, all’annessione israeliana della Cisgiordania; nell’annunciata adozione, nei confronti della UE, di dazi del 25%, non solo strumenti di guerra commerciale ma ordinatori di potenza: balzelli così elevati e diffusi e alleanze sono, infatti, incompatibili. A scolpire la cesura, le parole di Trump su “L’Europa nata per fregarci” e l’esortazione, rivolta dai suoi uomini agli europei, a “arrangiarsi” in materia di sicurezza.
Se i minimizzatori guardano alla fine dei prossimi quattro anni, confidando in un diverso leader alla Casa Bianca, i teorici dell’irreversibilità della lacerazione sono più pessimisti. La natura della rivoluzione conservatrice in corso negli Usa – sostenuta da un blocco sociale, composto da scontenti della globalizzazione e cantori del populismo antielitario, alleato con i signori del capitalismo digitale in un’ibridazione che pone al suo servizio una formidabile concentrazione di potenza, e distorsione, comunicativa-, lascia pensare che, se anche Trump non sfondasse il muro del terzo mandato, o l’età non glielo consentisse, a succedergli potrebbe essere il più giovane ma anche più radicale Vance che, a Monaco, ha sancito, precipitandoli nel buco nero dell’Era della Brutalità, la fine dei rapporti Usa-Europa così come si sono configurati a partire dalla seconda guerra mondiale e, durante l’incontro con Zelenski, si è comportato come aggressivo partner nel duello scatenato dallo “sceriffo in città”. Un luogo, la Casa Bianca del venerdì nero del presidente ucraino, che assomigliava più a Tombstone che a Washington
In uno Studio ovale trasformato in OK Corral, la strategia di Trump è parsa evidente: la sua America punta a staccare Mosca da Pechino, rovesciando lo schema Nixon-Mao. Nel mondo dei Tre Imperi, gli Usa possono dominare solo se, agganciando la Russia, stringono nella morsa il gigantesco Dragone. Strategia, questa, ritenuta più semplice di quello avviata da Kissinger negli anni Settanta, perché tra il Cremlino e la Città Proibita non vi è nemmeno più parvenza di una pur conflittuale affinità ideologica ma solo convergenze antiamericane. Trump punta a neutralizzarle, concedendo, al nazionalismo granderusso le spoglie dell’Ucraina. In questa nuova teoria dei Grandi Spazi, non c’è posto per l’Europa, oltretutto commercialmente fastidiosa.
L’Unione, dunque, è a un bivio: o accetta un destino da vassallo, magari lasciandosi tentare da risposte sovraniste che la farebbero ancora più piccola e fragile; oppure prende atto che, in questo ambiente rischioso, potrà sopravvivere solo con un ambiziosa politica comune, finanziata da debito comune, in materia di politica estera, difesa, ricerca, investimenti tecnologici. Uno sforzo colossale, che presuppone un chiarimento politico che conduca alla nascita di una nuova Unione, fondata su cooperazioni rafforzate e la fine di paralizzanti unanimismi. Un passaggio arduo, ma che va tentato, pena l’irrilevanza, sin dai prossimi appuntamenti: l’incontro di Londra sulla sicurezza promosso da Londra e Parigi e il Consiglio europeo straordinario del 6 marzo.
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