Noi, ostaggio di un continuo bisogno di altrove
E’ contagioso quanto un virus influenzale, non si tratta di un comportamento diluito e, la cosa peggiore, si concentra in precisi punti del calendario, schiacciando le date come una valanga fuori controllo
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Dev’essere stato così, anche al tempo delle grandi migrazioni umane, spinti da guerre o da illusioni propagandate. La pulsione dell’andare. Nel passato avrà agito il passa parola a cavallo, oppure stormi di piccioni viaggiatori o chissà quali suoni di tamburo.
Oggi a farci muovere è quel vacuo bisogno di altrove, che gli spostamenti per guerre o fame non possono avere e mai hanno avuto.
È uno straordinario privilegio evolutivo, quello di spostarsi senza motivo o meglio per motivi trascurabili. Ma questo, se fosse un vezzo personale, un occasionale bisogno di perdersi in qualche paesaggio sconosciuto, sarebbe tutt’altro che fastidioso.
È che il bisogno di altrove è contagioso quanto un virus influenzale, non si tratta di un comportamento diluito e, la cosa peggiore, si concentra in precisi punti del calendario, schiacciando le date come una valanga fuori controllo. Alle volte è sufficiente qualche giochino di influencer per soffocare una località, come è successo a Roccaraso. I social sono i tamburi dell’oggi, e funzionano.
Ma altre volte è la struttura stessa delle occasioni a essere una calamita: basti pensare all’inizio del Carnevale a Venezia in questi giorni. Chi può resistervi? Può un cittadino non sentire l’attrazione della città dell’amore quando inizia la potente festa del mascheramento? È l’occasione, social o meno, ad attrarre. Tutti. Senza pudore.
Fenomeni dell’epoca dei grandi numeri: velocità e facilità di spostamento. Grandi numeri, tranne quelli dei veneziani. Sempre più diluiti. I migranti dell’occasione, del «me ne vado subito e torno dopo», spingono ai margini gli abitanti di una città. Accadde in molte città turistiche, ma a Venezia è travolgente. Lo sarà senza sosta, pensiamo a Cortina. Non sarà possibile fermare questi processi.
Non ci sono ricette, dispiace dirlo.
A meno che una compagine di veneziani, duri e puri, non adotti qualche strategia diversiva. Aprire dei canali social e, in prossimità dei periodi più attrattivi dell’anno, lanciare campagne promettendo prosecco gratis a Refrontolo, navigazione gratuita del canale Vigenzone a Bovolenta, spritz per tutti in piazza a Mirano e Noale. Insomma, attirare altrove per assottigliare la torma di quelli che «prima che sia troppo tardi» devono regalarsi quattro passi a Venezia, magari lungo la via dei carboidrati, dalla stazione di Santa Lucia sino a San Marco. Così, per immergersi in un bel posto anche per poco.
Questo, però, potrebbe essere davvero, un motivo degno di riflessione. Con la ruggine e il dissesto di tante nostre e altrui cittadine, con così tante periferie scassate, strade sempre macinate, traffici caotici, autovelox ovunque, andare a Venezia, camminare immersi nella bellezza, non sarà il vaccino contro tanta, diffusa, bruttezza? Sarà forse la compensazione per aver pagato la tassa dello sviluppo urbanistico che ci avvilisce?
E funziona? Il sacrificio dolente dei veneziani ottiene risultati?
Mi pare di sì. Dopo una giornata sui gradini del ponte di Rialto si torna a casa guariti. Addolciti. Più sensibili. Più lungimiranti. Civilmente propensi a riconoscere il valore delle cose belle, disposti a preservarle, a sostenerle, anche con qualche sacrificio.
O no?
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