L’apertura culturale è un antidoto ai conflitti
Bisogna rinunciare alla purezza culturale e tutelare le minoranze, partendo dal ruolo centrale della lingua. Così si sventano odio e incomprensioni

Guardando a tutto quello che si è detto e scritto sulla guerra in Ucraina e sulle sue cause, c’è un fattore che non è mai stato preso in considerazione: le lingue. Nessuno ha battuto ciglio quando nel 2004 i Paesi baltici hanno aderito all’Ue senza che venisse chiesta loro una tutela della considerevoli minoranze russe nei loro territori. In Estonia il 24,7%, in Lettonia il 24,9%, in Lituania il 4, 5% dei cittadini sono di madre lingua russa e sono tutt’oggi discriminati nell’uso della loro lingua e nell’ottenimento della cittadinanza.
Il processo di naturalizzazione per questi cittadini europei è un percorso a ostacoli che prevede di fatto l’abbandono della cultura e della lingua d’origine. Mentre altrove nell’Ue tutti gli Stati si sono dati rigorose leggi di tutela delle minoranze linguistiche, qui è lecito calpestare questi diritti ed ostracizzare una parte della popolazione.

Ora è comprensibile che per gli Stati baltici una così forte presenza russa sul proprio territorio sia motivo di inquietudine, considerata l’oppressione che questi popoli hanno subito sotto i sovietici. È anche vero che per essi fosse essenziale ravvivare la cultura nazionale dopo decenni nei quali i sovietici avevano fatto di tutto per disperderla.
Ma c’era un altro modo di affrontare la questione, molto più efficace in termini appunto di geopolitica. Bisognava fare l’opposto: tutelarle queste minoranze, dare loro scuole bilingui, stampa, televisione ed ogni possibilità di coltivare la cultura e la lingua russa. Così i russi oltre frontiera avrebbero visto che nell’Ue è possibile essere russi e essere liberi, parlare la propria lingua e godere anche della democrazia.
Quanto al recupero delle culture nazionali, il bilinguismo e la cultura russa non lo avrebbero certo impedito, anzi la vivacità culturale di questi popoli avrebbe potuto conquistare anche i russi oltre frontiera e così allargare l’influenza baltica, anche politica nel paese che li ha a lungo tenuti incatenati.
Bisognava insomma rinunciare alla purezza culturale e accettare quel che la storia ha portato in quelle terre cogliendone l’opportunità: non più staterelli con micro lingue e culture da proteggere come animali in via di estinzione ma un gruppo di stati dinamici che invece di trincerarsi si aprono e irradiano le loro culture nella regione anche usando il russo.
Appena liberatisi dall’impero russo, gli Stati baltici non hanno invece saputo fare altro che ripetere i suoi errori e opprimere i loro ex oppressori, scegliendo ancora una volta il modello del nazionalismo contro quello dell’inclusione.
Nello stesso errore è caduta l’Ucraina nel Donbass, dove la ricetta vincente sarebbe stata di sventare la rivolta concedendo piena cittadinanza ai russi della regione e anzi accettando un bilinguismo che esisteva già, ancora una volta portando ad esempio ai vicini russi come si può essere russi, liberi e felici, ma fuori dalla Russia.
Ancora una volta qui si vede quanto l’apertura culturale e la condivisione siano strumenti capaci di sventare odi e incomprensioni e forse il migliore antidoto contro le guerre.
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