La sfuriata di Draghi e la manovra che mette la Ue all’angolo

L’indebitatissimo Trump vuole la pace a tutti i costi (quasi) per vendersi come «colomba del XXI secolo». La strategia prevede l’indebolimento ulteriore dell’Europa e l’aumento del fatturato della sua industria militare nel Vecchio Continente

Marco Zatterin

«Se uniti, saremo all’altezza della sfida e avremo successo», ha ricordato Mario Draghi nel chiudere il discorso all’Europarlamento. In tempi normali sarebbe una banalità. In questa stagione di incertezze economiche e tempeste geopolitiche, non lo è affatto. Il vertice a “6+” di Parigi ha dimostrato la buona volontà di alcuni, ma ha ribadito che in Europa, oggi, manca un’ispirata progettualità comune, l’unica che potrebbe dare risultati per raggiungere il progresso e la stabilità necessari per affermare la sicurezza continentale.

C’è persino chi si compiace nel vedere l’Ue in difficoltà, felice che il suo Paese partecipi all’abdicazione a dodici stelle dalle ambizioni solidali e dai progetti lungimiranti. E chi finisce per sentirsi più a casa quando parla da subalterno con Trump, imprevedibile aspirante re del Mondo che quando si ritrova coi partner di Bruxelles con i quali può confrontarsi alla pari. Così, si scopre che aveva ragione Eleanor Roosevelt, quando ammoniva che «nessuno può farvi sentire inferiore senza il vostro consenso».

Accettare una variabile di neo vassallaggio (incompatibile con l’ambizione di sovranità) per meglio amministrare il consenso politico interno accumulato sfidando l’Europa, cioè sé stessi, è un gioco pericoloso. Mettendo da parte una condizione che fatica a mutare – ovvero la divisione dei 27 –, conviene concentrarsi sulle ragioni che stanno portando Usa e Russia a parlarsi sino a proclamare che l’incontro di Riad è stata occasione di mutua comprensione.

L’esito è dubbio, ma accettiamo pure che si tratti di un inizio di processo e che, più avanti, sarà sentita l’Ucraina e consultata l’Ue, cosa sarebbe dovuta accadere sin da ora, e non solo nel migliore dei mondi possibili. Il sospetto di essere al cospetto di una nuova Yalta – il vertice tenuto in Crimea 80 anni fa in cui Regno Unito, Usa e Urss si spartirono il mondo per il dopoguerra alle porte – è concreto. Quanto quello di assistere, con le varianti del caso, a una versione 4.0 del patto Ribbentrop - Molotov che nell’agosto ’39 segnò il destino di Polonia e Baltici.

L’indebitatissimo Trump vuole la pace a tutti i costi (quasi) per vendersi come «colomba del XXI secolo». La strategia prevede l’indebolimento ulteriore dell’Europa, l’aumento del fatturato della sua industria militare nel Vecchio Continente, la conquista delle materie rare ucraine.

È una questione politica e di business, in nome della quale è disposto a ridisegnare gli equilibri planetari con Putin, oligarca come lui, dicendo «a voi la terra, a noi il tesoro». Mosca ha capito che può spuntarla e che un presidente statunitense impegnato contro l’America vecchio stile, l’Europa e la Nato, può essere un alleato formidabile che lo rimette in gioco.

A Riad, i due dialoganti hanno convenuto sull’esigenza a che Kiev vada alle urne per confermare Zelensky, con inconfessata speranza che non succeda. Il fatto che l’Ucraina (coi Balcani) resti in balia dei capricci del Cremlino non inquieta più molti, come non preoccupa la perdita di ruolo dell’Ue e dei suoi valori fondanti, prospettiva – questa – favorita delle quinte colonne sovraniste.

La storia si ripete, anche se non nello stesso modo. Le possibilità che prenda una brutta piega sono amplificate dal possibile patto Rubio-Lavrov che riscriva la mappa geopolitica del mondo, neutralizzi l’Ucraina, e faccia presto o tardi concessioni alla Cina. L’Europa, nelle loro teste, deve accontentarsi dell’osso che intendono lasciarle a fine pranzo. E l’Europa, va ricordato ai sovranisti e non solo, siamo noi. 

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