La volontà persa in Medio Oriente: No Other Land e la questione israelo-palestinese
Il documentario mostra i due lati del problema, ed è stato oggetto di dure critiche da ambo le parti. Lancia un appello per superare dal basso questa tragedia, trovando un linguaggio comune

Ci sono alcuni conflitti del nostro tempo che vanno letti secondo prospettive che consentano di riconoscere diversi lati della verità. Attenti sempre a distinguere con chiarezza gli aguzzini dalle loro vittime, si devono individuare - e possibilmente punire - i soprusi e i crimini che vengono commessi ogni giorno sotto i nostri occhi.
Ci si deve anche rendere conto, però, che siamo di fronte a tragedie che riguardano tutti i popoli coinvolti, imprigionati da decenni in situazioni che non sembrano avere vie di uscita, anzi si avvolgono in spirali sempre più soffocanti, mentre si continuano ad accumulare odi e violenze.
È così per la questione israelo-palestinese: rinchiude i palestinesi da quasi ottant’anni in una condizione di non-cittadinanza, strumentalizzati da più parti e trattati dallo Stato della stella di David sempre come sudditi, ma ora anche vittime di un accanimento criminale. Israele è una democrazia solo per una parte dei suoi abitanti, sempre più condizionata dal fanatismo e progressivamente assuefatta a iniquità e crimini, e resta comunque minacciata nella sua esistenza. Se al conflitto si potrà dare una soluzione duratura sarà solo liberando gli uni e gli altri dalla condizione in cui sono imprigionati, aprendo la via a un pieno riconoscimento reciproco.
Il film No Other Land, firmato da due autori palestinesi e due israeliani - prima di tutto da Basel Adra e Yuval Abraham che compaiono nel corso della narrazione con i loro dialoghi -, mostra con dolorosa evidenza tutti e due i lati del problema, la sopraffazione e la tragedia. È significativo che il film (premio Oscar per il miglior documentario) sia stato oggetto di dure critiche sia da parte israeliana sia da parte di alcuni organi palestinesi, proprio perché invita a pensare oltre le contrapposizioni di parte.
No Other Land mostra con sobria asprezza l’azione dell’esercito israeliano in una zona della Cisgiordania volta a espellere per sempre gli abitanti. La violenza sistematica tocca più le case che i corpi ma non per questo appare meno feroce, anzi colpisce l’accanimento contro le cose che sono la sola ricchezza di coloro che le possiedono e la conferma della loro povertà.
Al contempo colpisce l’atteggiamento dei soldati in cui si legge più che l’odio un’inquietante indifferenza, fino a quando ai militari si aggiungono i coloni decisi a effettuare al più presto la loro pulizia etnica.
Il dialogo tra Basel e Yuval punteggia triste e pensoso tutto il film, parlando di una tragedia che sembra insolubile ma non si rassegna a smettere di cercarla, una soluzione.
Il ministero della cultura israeliano ha parlato di un documentario falso e diffamatorio, il sindaco di Miami ha cercato di vietarlo in quanto «antisemita». Alcune organizzazioni palestinesi lo hanno accusato in sostanza di collaborazionismo, perché un palestinese non dovrebbe mai accettare di lavorare con gli israeliani o di dialogare con loro.
A irritare gli uni e gli altri però non sembra tanto quello che il film documenta ma piuttosto il fatto che faccia appello soprattutto alla buona volontà delle persone, per usare un’espressione che ci viene dalla tradizione cristiana. Una speranza per quanto fievole di avviarsi a superare dal basso questa tragedia, senza cancellare i torti ma senza rinchiudersi nell’odio, cominciando col trovare un linguaggio comune e un comune terreno di discorso. Proprio quello però che i fanatismi, in singolare convergenza tra loro, vogliono cancellare: la buona volontà.
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