Voto Usa, dal ko una lezione per i progressisti: meno principi, più economia reale

La vittoria di Trump mette i democratici di fronte alla necessità di cambiare agenda e priorità. Non basta più insistere forsennatamente su quella “politica dell’identità” che divide la società

Massimiliano PanarariMassimiliano Panarari
Sostenitori di Donald Trump festeggiano la vittoria elettorale del tycoon
Sostenitori di Donald Trump festeggiano la vittoria elettorale del tycoon

Se serviva una conferma ulteriore dell’importanza della personalizzazione in politica ci hanno pensato le ultime presidenziali Usa. Stravinte nel voto popolare – insieme alle elezioni per il Senato e a quelle per i governatori – dai repubblicani, o per meglio dire da Donald Trump, che ha trasformato la formazione politica già di Lincoln, Eisenhower e Reagan nel suo partito personale (e praticamente privato).

Uomo solo al comando

Per quanto ampiamente criticabile Trump possiede un carisma innegabile, quello su cui fa leva per proporsi come l’uomo solo al comando adorato dai suoi seguaci, amplificato ulteriormente dalla sua reazione iconica al fallito attentato. Mentre di carisma difetta completamente Kamala Harris, intronizzata dai vertici del Partito democratico dopo avere dato il benservito a Joe Biden, con la duplice criticità di averlo peraltro fatto assai in ritardo rispetto alla bisogna e in con una modalità apparsa a molti (e non soltanto al diretto interessato) piuttosto sgradevole.

Destra radicale ed estrema

Dal punto di vista politico (e ideologico), la vittoria di Trump è senza ombra di dubbio – e le sue dichiarazioni a caldo, insieme a vari passaggi del discorso di ringraziamento rivolto più agli elettori che alla nazione, lo ribadiscono per l’ennesima volta – quella di una destra radicale ed estrema mai vista finora con tratti tanto marcati. Si tratta, nei fatti, dell’arrivo al potere dell’alt-right suprematista e razzista – e che, nondimeno, prende i consensi di settori di vari esponenti delle minoranze (tu chiamalo, se vuoi, “paradosso postmoderno”...) – dotata dei connotati di quello che diversi osservatori e la stessa Harris hanno definito il «fascismo americano».

Trump arriva alla Casa Bianca sull’onda di uno slancio elettorale che suggerisce varie (legittime e fondate) preoccupazioni e configura un potere estremamente concentrato – anche con riferimento alla Corte suprema, dove ha dalla sua una maggioranza iperconservatrice e, per ragioni di età, potrebbe sostituire nel corso del tempo altri due giudici di orientamento liberal. E, dunque, l’attenzione deve essere elevata, al pari della capacità di mobilitazione – che, però, la sinistra tende sempre più a perdere, a partire da quella elettorale.

La sinistra dovrebbe riflettere

Non vi è dubbio riguardo il fatto che a penalizzare Harris vi sia stata anche una componente di misoginia, ma il risultato dovrebbe indurre la sinistra – di tutto il mondo – a riflettere. Perché Trump è riuscito a far convergere su di sé innanzitutto il cosiddetto forgotten man bianco delle zone rurali e periferiche e delle città medio-piccole, insieme, però, a settori non trascurabili delle (ex) minoranze etniche che sostenevano tradizionalmente il Partito democratico.

Focalizzare l’agenda sul radicalismo di matrice woke, l’«ecologismo elitario» (come lo ha definito Paolo Rumiz) e il “dirittismo” in termini fondamentalmente retorici (dal momento che i diritti – certamente da allargare ed estendere – devono poi risultare reali, e quindi esigibili, e non venire esclusivamente rivendicati) senza accompagnarvi il contestuale richiamo ai doveri rappresenta precisamente il tipo di piattaforma politica e comunicativa che non conduce alla vittoria.

L’ennesima “mutazione antropologica” nella direzione dell’egoismo si è sicuramente compiuta e appare durissima da fronteggiare (e, nella fattispecie, va specificato che vi si ritrova pure la responsabilità di qualche eccesso di soggettivismo caldeggiato da un pezzo di sinistra). Ma non rappresenta comunque una giustificazione sufficiente da invocare.

Il tycoon ha vinto con ricette semplicistiche e poco realizzabili (e perfino terribili, nel secondo caso) sull’economia e l’immigrazione.

Economia al centro

E, dunque, se i progressisti non rimettono davvero al centro l’economia (non la macroeconomia, ma quella reale e “domestica” dei salari e del potere d’acquisto) e la giustizia sociale, e non prendono nella debita considerazione le paure dell’uomo della strada, evitando di liquidarle nei termini di “mere percezioni” e sapendo che la pedagogia politica non ha più alcuna presa, il populismo dei demagoghi porterà a mettere in discussione l’impianto stesso della democrazia liberale.

Come si vede sempre di più in giro per il mondo. E non occorrono risposte autoconsolatorie, né insistere forsennatamente su quella “politica dell’identità” che – come dovrebbe essere evidente – divide la società, regalando cartucce propagandistiche alle destre.

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