I nostri atenei italiani sono torri medievali: ecco perché l’Italia non brilla
QS World University Rankings che ha analizzato 1700 atenei mondiali di oltre mille paesi certifica l’infelice stato del sistema accademico. A Nord Est eccellenze ma non si fa rete

Fuori corso. La recente classifica del QS World University Rankings su 1.700 atenei mondiali di oltre 100 Paesi conferma l’infelice collocazione del nostro sistema accademico: a fronte di singole lauree che ottengono voti lusinghieri, è l’istituzione nel suo insieme che sfigura.
Per rintracciare le prime sedi italiane bisogna scendere sotto la posizione numero 100: dove se ne trovano soltanto tre, Politecnico di Milano, Sapienza di Roma e Alma Mater di Bologna; poi bisogna spostarsi sotto quota 200.
Quanto al Nord Est, la migliore (o la meno peggio…) è Padova, al numero 236; dopo di lei un abisso, con Venezia al gradino 664, Trieste al 722, Verona al 771, Udine addirittura al 1001. A peggiorare ancor più il quadro, se possibile, il fatto che un ateneo italiano su quattro ha peggiorato la propria collocazione rispetto all’anno scorso.
Certo, tutte le classifiche sono opinabili, essendo legate ai criteri adottati per compilarle. Ma quando le loro indicazioni convergono, c’è poco da eccepire: siamo nelle posizioni di coda non solo nel mondo, ma nella stessa Europa, per una serie di ragioni fin troppo note quanto sistematicamente ignorate dalle politiche pubbliche in materia.
Un’indagine Mediobanca certifica che i nostri investimenti nel sistema universitario si fermano all’1,5 per cento del Pil, contro il 2,3 della media Ue e il 2,7 della media Ocse; la spesa per studente è di 12.663 dollari, a fronte della media Ue di 17.578, con punte di 20.760 per la Germania e 18.880 per la Francia. Sconfortanti le singole voci: basti pensare a quanto viene destinato per il Fondo di finanziamento ordinario, essenziale per la gestione quotidiana, pari a 9 miliardi, che al netto dell’inflazione significano la stessa cifra di 25 anni fa.
Ma non è solo questione di soldi: è l’impianto complessivo che fa acqua da tutte le parti; a cominciare dal numero eccessivo di sedi, ben 97 cui se ne aggiungono altre 11 telematiche, con la conseguente dispersione delle risorse in mille rivoli.
L’elenco continua con una soffocante burocratizzazione, che rischia di trasformare i docenti in capi ufficio; con la condizione di docenti e ricercatori, di età da Matusalemme i primi e vittime di un precariato selvaggio i secondi; con i laureati fermi al 28 per cento a fronte del 47 del dato Ocse; con i tagli di budget annunciati che andranno a penalizzare ancor più un sistema già sottofinanziato di suo. Tutti handicap che verranno ribaditi e rilanciati domani (inutilmente…) in un convegno organizzato dalla Normale di Pisa sul futuro dell’università italiana: un pianto greco.
Al fitto “cahier des doléances” del sistema nazionale, il Nord Est concorre per la sua quota parte, specie per la cronica incapacità di fare sistema.
Da Padova a Verona, da Venezia Ca’ Foscari ad Architettura, da Udine a Trieste, da Trento a Bolzano, può contare su atenei di assoluto livello, con non poche punte di eccellenza; ma ciascuno rigorosamente in proprio, ignorando gli altri se non operando sgambetti, incapace del minimo coordinamento. Basti pensare al miraggio di un Politecnico di area, che sarebbe fondamentale per la rete di imprese del territorio: di cui si discute a vuoto da anni, se non da decenni.
Anche l’università concorre a quell’esiziale gap che grava ab illo tempore sull’intera area: connotata, come segnala Luca Paolazzi direttore scientifico della Fondazione Nord Est, da una perversa logica di orticelli e steccati, e da un panorama che ricorda le torri delle vecchie città medievali. L’un contro l’altra armata. —
Riproduzione riservata © il Nord Est