Effetto spopolamento sulle Terre Alte: una battaglia per il futuro del territorio

Le comunità alpine, minoranze irrilevanti all'interno di Regioni pianeggianti e urbanizzate, hanno il destino segnato: se il declino continua, saranno asservite ai territori urbani. Una analisi dal Bellunese

Diego Cason
Branislava Teofanovic per il concorso "Belluno Meraviglia", dal monte Pore
Branislava Teofanovic per il concorso "Belluno Meraviglia", dal monte Pore

Sono passati trent’anni da martedì 27 settembre 1994, quando in edicola apparve, neonata, la prima copia del Corriere delle Alpi. Vorrei scrivere che questi trent’anni nella comunità bellunese sono trascorsi dolcemente. Ma non è così, sono rotolati a valle irruenti come l’acqua di un emissario glaciale in primavera. I cambiamenti radicali e rapidi producono sempre gravi turbolenze sociali.

Il Corriere nacque lo stesso anno nel quale la Gran Bretagna si congiunse all’Europa con una galleria sotto la Manica, e appena un po’ prima che i voli low cost rimpicciolissero il mondo e internet lo trasformasse nel giardino di casa.

Le comunità bellunesi hanno subito cambiamenti rapidissimi in molti ambiti che hanno determinato la perdita di 11.266 residenti (-6,7%). E ciò è accaduto nonostante che, dal 1994, la provincia di Belluno, storicamente terra di devastanti emigrazioni, sia diventata terra di moderata immigrazione.

Allora c’erano 1.000 stranieri residenti, oggi sono 12.200. Si sono sovvertite le relazioni tra generazioni, i più giovani, (0-14 anni), sono diminuiti del 16,4%, i residenti attivi (15-64 anni), hanno subìto una riduzione del 14%, i non attivi anziani (65 anni e più) oggi sono 11 mila in più (+26%). Siamo comunità molto invecchiate con 2,5 ultrasessantacinquenni per ogni giovane con meno di 15 anni.

Nel 1994 i giovani erano il 62% degli anziani e il 12% della popolazione oggi sono il 41% dei primi e il 6% della seconda. Una società nella quale gli anziani sono più del doppio dei giovani (che non votano) guarda all’indietro, fatica a progettare, indulge alla nostalgia a scapito di una volitiva visione del futuro. I motivi di questo rapido invecchiamento sono molti ma il più rilevante è la contrazione della natalità (-37%): nel ‘94 i nati furono 1.681 mentre l’anno scorso sono stati 1.063.

La differenza tra nati e morti in questi trent’anni è sempre stata negativa e, per questo motivo, la popolazione s’è ridotta. Il saldo naturale negativo (nati - morti) peggiora ogni anno di più perché, se la popolazione invecchia, cresce anche il numero dei decessi. Nel 1994 il saldo naturale fu di -859, e l’anno scorso è stato di -1.424, se calano i nati e aumentano i morti il risultato è il declino demografico.

Nello stesso periodo il costume riproduttivo e la struttura delle convivenze familiari sono radicalmente mutati.

Le famiglie sono cresciute di numero, ora sono 94.023 mila e hanno meno componenti (2,1 persone per famiglia), quelle formate da una persona sola sono triplicate e ora sono 36.597, il 39% del totale. I divorziati sono aumentati di 6,2 volte (8.445 contro 1.175), i celibi sono aumentati del 4,5% e i coniugati sono diminuiti del 19%. I numeri spesso non comunicano bene i fatti che misurano: il calo dei residenti corrisponde all’eliminazione degli abitanti di 20 comuni bellunesi, alle vittime di sei Vajont, a tre volte e mezzo i caduti in provincia nella Prima guerra mondiale, a cinque volte i morti e i dispersi bellunesi nella Seconda guerra mondiale.

L’altro elemento che determina il declino della popolazione è la debole capacità attrattiva di flussi immigratori, sia dal resto dell’Italia sia dall’estero. Il saldo migratorio medio degli immigrati (iscritti meno cancellati alle anagrafi) da altri comuni italiani è stato solo di 116 persone l’anno, meno di 2 persone per comune. Il saldo migratorio medio da altre nazioni, (per l’80% europei) è stato in media di 626 persone l’anno, appena 10 per comune.

I saldi migratori positivi, anche se visti come un’invasione di barbari pericolosi, non hanno colmato il saldo naturale fortemente negativo e i flussi di stranieri in provincia sono poco rilevanti. In Veneto gli stranieri residenti sono il 10% della popolazione, a Belluno sono il 6,7%. Sono modesti anche i flussi di rifugiati e richiedenti asilo (in media circa 300 l’anno), le cittadinanze italiane concesse (circa 400 l’anno) e i nati in famiglie con almeno un coniuge straniero sono in media 160 l’anno e rappresentano, però, il 12% dei nati totali.

In questi trent’anni il divario territoriale nello sviluppo demografico ed economico si è amplificato. Perché nei comuni posti a quote più elevate, la riduzione della popolazione è molto più pesante di quella nei comuni della Valbelluna. I residenti di Cibiana, Gosaldo e Selva sono diminuiti dal 47 al 43%, quelli di Zoppè del 36%, in ventuno comuni dolomitici (più Soverzene e Quero-Vas) sono diminuiti tra il 21 e il 29%.

In undici comuni in quota (più Longarone e Fonzaso), c’è stata una riduzione della popolazione tra il 10 e il 19%, in altri otto comuni la diminuzione è contenuta tra l’1 e il 9%. Solo in 13 tredici comuni è avvenuta una crescita tra lo 0,5% e il 9%, solo in tre comuni c’è stata una crescita a doppia cifra: a San Vito + 16%, a Sedico + 24% e a Limana + 26%.

La fragilità delle comunità dolomitiche si è manifestata con il trasferimento di Sappada in Friuli-Venezia Giulia e con le fusioni di comuni che ne hanno creato 5 al posto di 13. Le comunità alpine, che sono minoranze irrilevanti all'interno di Regioni pianeggianti e urbanizzate, hanno il destino segnato: se il declino continua saranno asservite ai territori urbani. Minore è il potere pubblico e privato locale più si riduce la capacità di autogoverno. Non è certo un caso che le province alpine che hanno avuto una crescita demografica sono tre province a statuto speciale (Aosta + 5,5%, Trento +19,6%, Bolzano + 20,6%) e che in provincia di Belluno il 48% delle abitazioni (89 mila) non è occupata. L’adattamento ai cambiamenti non è e non sarà facile.

Ci sono anche buone notizie, ad esempio, in trent’anni gli avviati al lavoro sono cresciuti del 57%, le donne occupate sono cresciute del 26% e il reddito pro-capite è cresciuto del 36%, le esportazioni sono cresciute di 2,4 volte. Restano problemi per la grave carenza di lavoratori, per in calo delle imprese attive (- 13%) e per quelle artigiane diminuite di un quarto, per l’agricoltura dove c’è l’80% delle aziende in meno e la riduzione di un terzo della superficie agraria.

L’augurio è che le comunità bellunesi nei prossimi trent’anni sappiano porre rimedio alle debolezze croniche che li angustiano e consolidino gli ambiti in cui hanno saputo raggiungere buoni risultati. Questo, però, sarà un altro scriba a raccontarvelo.

L’autore

Il bellunese Diego Cason, sociologo, è stato docente di discipline giuridiche ed economiche all’Istituto “Tommaso Catullo” di Belluno. Si occupa di sociologia delle comunità e del turismo e di analisi socioeconomiche finalizzate alla pianificazione territoriale. È presidente dell’Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’età contemporanea. È uno dei fondatori del Bard Belluno Autonoma Dolomiti Regione, movimento per la rinascita delle comunità delle dolomiti bellunesi

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