C’era una volta la locomotiva: per ripartire il Nord Est ha bisogno di fare sistema. E di cambiare
Per affrontare i nuovi competitor servono un insieme di caratteristiche: la capacità di definire strategie comuni, il creare alleanze e progettualità di lungo respiro, la definizione di un nuovo e diverso “bene comune” e di una soggettività cooperativa e comunitaria
Il tratto che segna questa fase storica dello sviluppo del Nord Est, soprattutto a partire dall’avvio di questo secolo, è il «disallineamento». Un procedere a velocità diverse, in ordine sparso sia nei confronti degli scenari globali, sia al proprio interno. Non v’è dubbio che i fenomeni che stiamo attraversando trasformino in profondità il contesto, che diventa sempre più caratterizzato da rapidità e instabilità: il cambiamento è diventato la normalità, l’incertezza fa da padrona riducendo la possibilità di delineare scenari futuri plausibili. È la complessità dei fenomeni che richiede di rivisitare continuativamente e prontamente le situazioni e le previsioni.
In questo senso, l’iconografia attribuita alle regioni del Nord Est quale “locomotiva d’Italia” negli anni ’80-‘90 del secolo scorso, è definitivamente tramontata. Quella raffigurazione rimandava all’idea di un territorio coeso e indirizzato in un percorso univoco. Dove il locomotore trainava i diversi vagoni lungo un’identica direttrice e tutti viaggiavano alla medesima andatura. In un percorso lineare e progressivo.
Da diversi anni quella capacità di accelerazione si è affievolita. Si corre al passo di altri. Anzi, non di rado, si è superati da territori e regioni connotate da un analogo sviluppo socioeconomico. Volendo utilizzare quella metafora, il “locomotore” e i “vagoni” hanno lasciato spazio a una “scuderia” di auto che hanno motorizzazioni e design diverse, più o meno al passo con le nuove tecnologie; viaggiano a velocità disparate in virtù della loro potenza; percorrono itinerari differenti. Una “scuderia” sicuramente con elementi di prim’ordine, ma che non formano una “squadra”.
Questa carenza di “squadra” non è un fattore nuovo nella storia di queste regioni. Piuttosto, in passato la spinta individualistica è stata il vero e proprio propellente per il “locomotore”: spiriti autonomi in grado di liberare grandi energie, imprenditorialità e innovazioni. Ma ciò avveniva in un contesto più stabile e circoscritto, la globalizzazione e l’apertura internazionale doveva ancora palesarsi.
L’avvento dell’integrazione dei mercati a livello mondiale e l’ingresso di nuovi e agguerriti competitori muta radicalmente gli scenari. Per affrontarli servono un insieme di caratteristiche: la capacità di definire strategie comuni, il creare alleanze e progettualità di lungo respiro, la definizione di un nuovo e diverso “bene comune” e di una soggettività cooperativa e comunitaria. In altri termini, una diversa visione dello sviluppo.
Le risorse di cui dispone il Nord Est, così come gli aspetti problematici sono noti. Altrettanto lo sono le iniziative e le politiche che dovrebbero essere perseguite, come già evidenziati dagli interventi ospitati in queste pagine. La premessa, però, è che senza una piena consapevolezza dei limiti, non si riuscirà a cambiare lo schema di gioco: serve una trasformazione “culturale”, prim’ancora che organizzativa e tecnologica.
La velocità dei cambiamenti di contesto necessita una presa di coscienza che invece sconta vischiosità e resistenze dure da abbattere nei comportamenti e nelle azioni. Perché il mutamento è incerto e ignoto, ed è più facile ancorarsi al passato di cui si conoscono i confini, gli usi e i meccanismi: le “utopie” sono incerte, meglio affidarsi alle “retrotopie” (Baumann) che idealizzano il passato, considerato più rassicurante.
È in questa frizione, fra la velocità del cambiamento e le resistenze ad adattarsi, a intravedere le nuove opportunità che prende forma il «disallineamento» delle due regioni. La reattività avviene «lenta/mente» (come racconta il volume “MutaMenti 2023”, Marsilio, promosso da BCC Pordenonese e Monsile, col sostegno di Fondo Sviluppo FVG), sia nel senso di «lentezza» temporale della risposta, ma soprattutto «culturale»: nella difficoltà di agire strategie diverse da quelle consolidate e note.
Sia chiaro, non mancano innovazioni e capacità di offrire risposte alle prove. Le performance economiche continuano a essere positive, seppure solo leggermente superiori alla media nazionale. Le imprese in grado di affrontare le sfide globali non mancano. Ciò non di meno è l’azione di sistema a non essere presente. E il tema della «sostenibilità», oggi diventato il nuovo paradigma dello sviluppo, rischia di mettere a nudo ancor di più le difficoltà degli attori del territorio nel realizzare azioni che li vedano cooperare assieme, ai diversi livelli.
Quindi, non si tratta semplicemente (sic!) di efficientare l’economia, rimettere mano al motore e alla meccanica delle auto – per riprendere la metafora della scuderia. È invece necessario assumere un approccio multidimensionale il cui perno risiede nella sostenibilità.
L’etica protestante aveva sposato il capitalismo nel suo sorgere. Poi lo spirito del capitalismo nell’ultima parte del XX secolo si è combinato con l’etica individualista. Quel connubio oggi mostra la corda, risulta insufficiente. Diventa necessario formulare un’etica della sostenibilità che si coniughi con la ricerca di una nuova e diversa idea di «noi», di comunità.
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