Medici con l’Africa, il Cuamm e la lezione di costruire nuovi ponti
Dietro l’anonima etichetta, continua a operare ogni giorno una realtà straordinaria di uomini e donne che agiscono curando, guarendo, assistendo, formando
A luci spente. Archiviato l’annuale meeting, a Torino, con ampia risonanza mediatica, il Cuamm torna nell’ombra lunga un anno cui è abituato nei suoi tre quarti di secoli di vita; ma al riparo della quale ha fatto per gli ultimi della Terra più di ogni altra istituzione ufficiale. Dietro l’anonima etichetta, continua a operare ogni giorno una realtà straordinaria di uomini e donne che agiscono curando, guarendo, assistendo, formando; pur potendo contare su un rivolo di risorse rispetto al fiume di mezzi inviati nel più povero dei continenti, l’Africa, da un Occidente più interessato a coltivare i propri non sempre limpidi interessi che ad aiutare davvero chi soffre.
Eppure questo piccolo mondo esemplare è molto più conosciuto fuori che in casa, in quel Nord Est in cui è nato 74 anni fa: che gli dedica solo scampoli di aiuti concreti, al di là dei riconoscimenti di facciata. Quella lunga storia mette non a caso radici in una terra specifica: se oggi le oltre 1. 600 persone mandate in 41 Paesi diversi sono conosciute come “Medici con l’Africa” (dove in quel “con” è condensato il senso profondo del progetto), questo è espressione anche di un “Veneto con”, area da sempre contraddistinta da una scelta di apertura, di inclusione, di accoglienza.
Alle origini della vicenda del Cuamm ci sono due figure tipicamente venete, i vicentini Francesco Canova e Anacleto Dal Lago: a loro volta figli di una storia che viene da lontano, lungo il filo conduttore di un’ “ora et labora” quotidiano che incarna nella fede ma soprattutto nelle opere la scelta evangelica di stare dalla parte di chi è povero, di chi soffre, di chi viene relegato dalla vita tra gli ultimi.
È un messaggio che viene da lontano dunque, quello del Cuamm, e che appartiene all’anima profonda della realtà veneta, capace da sempre di tradursi in una solidarietà con gli ultimi. Ne rende ennesima testimonianza l’ultima delle campagne lanciata da Torino, “Di mamma ce n’è una sola”; che riprende e rilancia quell’impegno di “Prima le mamme e i bambini” avviato quattordici anni fa per garantire un parto sicuro: in una realtà come quella dell’Africa subsahariana, dove ogni anno 280mila donne muoiono dando alla luce un figlio.
“Il parto non è una malattia, non è possibile che si possa morirne”, ricorda don Dante Carraro, anima del Cuamm. In una società come la nostra segnata da una sanità intrisa di sprechi, polemiche, violenze fisiche, è urticante spiegare che per garantire il diritto di nascere senza morirne bastano ai Medici con l’Africa 40 euro l’anno, meno di un euro a settimana.
Ma al di là dei soldi, è un messaggio che va oltre le luci della ribalta, quello che ci viene dal meeting di Torino. Un pro memoria che si inserisce nel messaggio di fondo di papa Francesco, quando esorta la Chiesa ad andare nelle periferie della vita, e a farsi ospedale da campo; non solo per prendersi cura degli altri a partire dai più indifesi, ma anche per curare noi stessi, riscoprendo attraverso la relazione con l’altro il peso e la meschinità degli orizzonti sempre più bassi di cui siamo diventati prigionieri. Un invito a trascurare i piccoli illusori vantaggi e benefici dell’oggi, per riscoprire il senso e il valore del domani, del progetto, del costruire ponti e non muri. L’Africa come scuola di vita, di vita vera.
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