L’economia della conoscenza passa per le città: come colmare i ritardi dell’Italia e del Nordest

Il tempo del “piccolo è bello” è passato e i distretti industriali sono ormai poco adatti a favorire lo sviluppo di produzioni ad alta intensità di conoscenza. Serve un nuovo ecosistema territoriale

Apple Store a Monaco di Baviera, foto AGF
Apple Store a Monaco di Baviera, foto AGF

Non so se si debba attribuire a qualche “naso di Cleopatra” la preferenza data dalla Silicon Box di Singapore all’ecosistema territoriale di Novara rispetto a quello di Vigasio (Verona) per l’ubicazione del suo impianto di produzione di chiplet (piccoli circuiti integrati). Di certo può aiutare a capire quella scelta, e a creare le condizioni per scelte future più favorevoli al Nordest, la raccomandazione di Centreforcities, influente think tank inglese, (Climbing the Summit, Londra, 2024), indirizzata al neoeletto governo britannico affinché si adoperi per attrarre imprese innovative e risorse umane altamente qualificate nelle città di Birmingham, Manchester, Leeds e Glasgow.

La relazione tra i due fatti può apparire lontana e labile, ma, sapendola e volendola riconoscere, piena di insegnamenti per la politica industriale e territoriale italiana e veneta.

Partiamo dalla Gran Bretagna

Il punto di partenza è che il Regno Unito si è accorto di soffrire di un “divario di prosperità” rispetto ai paesi leader del G7 e che ha deciso di colmarlo: la piattaforma sulla quale il laburista Starmer ha vinto le elezioni pone espressamente l’obiettivo di conseguire nel medio periodo “la crescita stabile più elevata nel G7”. Un divario di prosperità da chiudere riducendo il persistente divario di produttività che ne sta alla radice. Ma come? E qui si inserisce Centreforcites con un originale approfondimento diagnostico e una decisa indicazione di policy.

Il divario di produttività si è andato allargando negli ultimi anni nei settori innovativi, nelle attività ad alta intensità di conoscenza (manifattura e servizi tradizionali digitalizzati e nuovi servizi digitali).

Tutte attività –questo è l’aspetto spesso sottovalutato—che si sviluppano di più nelle maggiori aree urbane funzionali (centri urbani con le loro aree di pendolarismo): “ecosistemi territoriali” che garantiscono, per le imprese, l'accesso a un ampio bacino di lavoratori qualificati, l’accesso alla conoscenza attraverso le interazioni faccia a faccia con altre imprese e l'accesso ai clienti; e, per i lavoratori, l'accesso a remunerazioni più elevate, a più rapidi avanzamenti di carriera e a migliori servizi residenziali. Il divario di prosperità si chiude in Gran Bretagna –spiega Centreforcities-- rendendo le sue città, quelle più grandi –non solo Londra-- meglio capaci di attrarre imprese innovative e i talenti che le rendono più produttive.

Se Londra si allineasse così alla produttività di Parigi o Monaco di Baviera e le altre grandi città britanniche riducessero del 40% il loro ritardo di produttività rispetto a Londra il PIL britannico aumenterebbe, solo per questo, di quasi il 9%. Incoraggiare l’innovazione tramite le università di Birmingham, Manchester, Leeds e Glasgow da finanziare generosamente; rendere accessibili i centri di quelle città, resi più densi e più ricchi di servizi rari, ad un più largo bacino di talenti tramite sistemi più efficienti di trasporto pubblico di massa: sono queste le politiche prioritarie per l’UK. Ma veniamo all’Italia. La situazione è analoga a quella inglese.

Monaco batte Milano

Prendendo Monaco di Baviera come riferimento, Milano ha una produttività più bassa del 10%. Le altre aree metropolitane funzionali italiane soffrono di divari che vanno dal meno 18% di Firenze al meno 69% di Reggio Calabria. Se riuscissimo ad allineare la produttività per addetto di Milano a quella di Monaco di Baviera e quella della altre aree metropolitane italiane a quella odierna di Milano il PIL dell’Italia aumenterebbe di più del 7%.

Per farlo occorre far scattare nelle aree metropolitane italiane circuiti virtuosi di concentrazione di imprese innovative, alla ricerca di altre imprese innovative e di talenti; di talenti alla ricerca di imprese capaci di impiegarli; e di servizi urbani che migliorino la loro qualità della vita (migliore qualità della vita e maggiori opportunità valgono ancor più delle differenze salariali nello spiegare l’emigrazione dall’Italia dei nostri laureati).

Farlo, tra l’altro, vincendo la facile tentazione di accontentarsi di stra-sviluppare invece servizi concorrenti, facili da organizzare ma a basso valore aggiunto, come quelli turistici. Nel Nordest la vicenda di Vigasio e le analisi di Centreforcities ci dicono che il tempo del “piccolo è bello” è passato; che i distretti industriali sono ecosistemi territoriali validissimi nell’era dello sviluppo industriale, ma poco adatti a favorire lo sviluppo di produzioni ad alta intensità di conoscenza e che dobbiamo, il più presto possibile dotarci di un ecosistema territoriale, un’area metropolitana funzionale, della scala, dell’efficienza e della sostenibilità degli ecosistemi territoriali concorrenti italiani ed europei.

L’area metropolitana “funzionale” centro-veneta, quella compresa nel quadrilatero Padova- Castelfranco Veneto- Treviso- Mestre con Venezia è quella che, se aiutata a diventare presto un unico organismo urbano di taglia adeguata, può, meglio e presto, a funzionare, prima di ogni altra, da magnete dello sviluppo del Nordest (Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige) nell’era della economia della conoscenza che ci attende al varco, ma non aspetta.

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