La salute del sistema Nord Est tra orgoglio innovativo e cassandre
Vanno bene le imprese con lo sguardo lungo inseritesi come partner nelle filiere internazionali.
Le realtà più deboli chiedono di essere sostenute per riprendere la competitività persa
Le analisi sullo stato di salute dell’economia nordestina sono sempre più contrastanti, complice la crisi della Germania di cui siamo fornitori privilegiati in molti settori, piuttosto che la flessione del lusso in Cina, oltre che per l’instabilità del contesto globale.
I due fronti
Da un lato, si schierano i sostenitori di imprese in grado di reggere la competizione internazionale: ne sono prova le diverse iniziative (fra cui anche quelle sostenute dal Gruppo Nem), molto partecipate, volte a mettere in evidenza la presenza diffusa di realtà produttive solide e innovatrici.
Si tratta non di rado di imprese poco note a un pubblico ampio, che in classico stile nordestino “fanno e non dicono”, ma le cui performance economiche sono ragguardevoli. Tutto ciò, soprattutto fra il ceto politico, oggi meno in quello imprenditoriale, fa scattare il meccanismo dell’“orgoglio nordestino”, quello degli anni ’90, quando il Nord Est era la “locomotiva d’Italia” e imperversava il motto “piccolo è bello”.
Orgoglio che rinvia all’idea di lasciare autonomamente agli “spiriti imprenditoriali” di trovare nuove vie di sviluppo.
Dal lato opposto si dispongono quanti evidenziano lacune e ritardi di un sistema d’impresa in preda a logiche di sviluppo che oggi mostrano la corda: incapacità di collaborare, scarsa propensione a un’innovazione radicale, piccola dimensione che ancora connota gran parte del sistema e l’elenco potrebbe allungarsi ancora. Sottolineature proposte in particolare da studiosi e analisti spesso bollati come “cassandre”, portatori di sventure.
Qualche settimana fa, Alessandro Profumo, intervistato su l’Economia del Corriere della Sera da un analista attento come Dario Di Vico, alla domanda su come valutasse la situazione del Nord Est rispose “in crisi” a causa dell’eccessiva dipendenza dalla Germania.
Il j’accuse è nei confronti di un sistema imprenditoriale che fatica a innovare non solo nei prodotti, ma anche nei comportamenti. E verso istituzioni incapaci di progettualità di medio-lungo periodo.
Chi ha ragione?
Chi, dei due schieramenti, ha ragione? La risposta è “entrambi”. E non per mantenere un equilibrio che non faccia dispiacere ad alcuno. Ma perché assumere un’unica ottica, quella più negativa o quella più positiva, non aiuta a cogliere la complessità della situazione in cui è immerso il sistema produttivo – e non solo – delle regioni del Nord Est.
Infatti, da qualsiasi punto di vista si voglia prendere l’analisi, le realtà sociali ed economiche si stanno progressivamente “bi-polarizzando”, dividendo in due in modo sempre più netto. Detta brutalmente, fra chi ce la fa e chi non ce la fa; fra chi è in grado di essere competitivo e chi non ce la fa, scivolando gradualmente fuori mercato o border line. In più, la bilancia fra le due polarità vede crescere nel tempo il peso di quanti sono in difficoltà.
La questione è complicata poi dal fatto che queste tensioni tagliano trasversalmente – rimanendo in campo imprenditoriale – i settori economici.
L’automotive vive problematicità, ma non tutte le imprese del comparto. E così pure il tessile e la moda e così via. I distretti industriali un tempo si muovevano in modo sincrono, ora non più: all’interno di ciascuno di essi alcune imprese hanno performance positive, altre negative. Vanno bene quelle che hanno investito nell’innovazione, nella formazione del capitale umano, si sono inserite come partner nelle filiere internazionali (non come terzisti).
Chi non ha seguito questi indirizzi ora ha il fiato corto.
Distretti e dis-larghi
Sono queste dinamiche che disegnano la trasformazione dei “distretti” in “dis-larghi”, dove le imprese hanno allungato le loro reti di relazioni e ridisegnato i confini del territorio di origine e delle relazioni.
Di qui la complessità dei fenomeni, che non possono essere letti in modo unidimensionale. Ciò rende più difficile offrire risposte univoche, ma che devono essere tailor made, progettate su misura. Anzi: “strabiche”. Perché contemporaneamente devono essere in grado di sostenere le realtà più deboli (aiutandole a riprendere competitività) e agevolare i percorsi di crescita delle migliori.
Sono in grado le singole imprese di affrontare da sole un simile scenario? Certo, ci sono ritardi, anche culturali, da superare. Ma non ritengo sia corretto gettare su di loro la croce. Quelle di grandi dimensioni hanno la possibilità di dotarsi di strumenti e consulenti in grado di indirizzare le strategie. Ma, com’è noto, la stragrande maggioranza è composta da piccole e microimprese, che non ha tempo, risorse e opportunità per seguire analoghi percorsi.
Il ruolo delle rappresentanze associative imprenditoriali
Qui viene la responsabilità, in primis, delle rappresentanze associative imprenditoriali e anche sindacali. Spetta a loro offrire strumenti di interpretazione, visione e progettualità al sistema produttivo nel suo complesso (imprenditori e lavoratori).
Prima ancora della politica, di cui comunque sono interlocutrici dirette. Poiché sono le più prossime al tessuto economico e al capitale professionale, quindi sono in grado di ascoltare e, per l’autorevolezza di cui ancora godono, di proporre strategie utili allo sviluppo.
Meglio ancora se tali iniziative sono volte a costruire eco-sistemi sui territori, superando le antiche appartenenze o divisioni settoriali.
Un sussulto di responsabilità che si è colto anche nel discorso di insediamento della neopresidente di Confindustria Veneto Est Paola Carron quando ha fatto riferimento al “significato sociale della competizione”.
Ma è possibile dotarsi di visione e strategie in assenza di centri di studio ed elaborazione culturale che aiutino a individuare nuovi percorsi?
Il Nord Est nei decenni scorsi aveva avuto la capacità, sia in ambito sindacale che imprenditoriale, di attrezzare enti di ricerca in grado di elaborare strumenti interpretativi. Da molto tempo, quegli enti sono stati dismessi o ridotti al lumicino in termini di risorse e personale.
È venuto loro meno un commitment, un indirizzo strategico, da parte delle rispettive organizzazioni fondatrici. Mentre è questo preciso momento storico a richiedere uno sforzo culturale da parte delle rappresentanze associative nell’offrire nuove visioni allo sviluppo e sostegno al sistema produttivo. —
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