Allerta peste ovina e caprina, focolai in Romania e Grecia
Bucarest al 9 agosto ne aveva identificati 56, Atene fa abbattere 20 mila capi. A rischio la filiera della produzione della feta. Controlli alle frontiere nei Balcani

BELGRADO Prima la peste suina, un flagello che ha provocato un’ecatombe di maiali, asse portante degli allevamenti nei Balcani, con disastri registrati negli anni passati in particolare in Serbia, Bosnia-Erzegovina, Croazia e oltre. E ora un’altra epidemia – non pericolosa per l’uomo, ma spesso letale per capre e pecore e temutissima in economie a forte vocazione agricola – fa capolino nella regione, già in ginocchio a causa della prolungata siccità.
Si tratta della cosiddetta “Peste dei piccoli ruminanti” (Ppr), malattia infettiva e molto contagiosa che colpisce appunto i ruminanti selvatici e domestici, caprini e ovini, con una mortalità che varia tra il 50 e l’80% dei capi colpiti. La Ppr fu scoperta nel 1942 ed è presente oggi in parti dell’Africa, del Medio Oriente e del subcontinente indiano, ma anche in Turchia. L’Europa, invece, a parte un caso limitato e contenuto con successo in Bulgaria nel 2018 nel caso di un grande gregge di pecore e capre che pascolavano proprio nei pressi del confine turco, è stata finora risparmiata dal morbo.
Ma il quadro sembra cambiare rapidamente. In peggio. E l’epicentro di una possibile emergenza – che già allarma le autorità locali – si trova proprio nei Balcani. Emergenza che è partita dalla Romania, dove già a metà luglio è stato identificato dai veterinari il primo caso di Ppr in una pecora, nella zona di Tulcea, tra il Delta del Danubio e le coste del Mar Nero. Caso che, purtroppo, non era isolato. Lo ha confermato l’Autorità nazionale romena per la salute veterinaria e alimentare (Ansvsa), che nei giorni scorsi ha fatto il punto sulla diffusione della Ppr in Romania. E si tratta di dati già drammatici.
Al 9 agosto, infatti, le autorità di Bucarest hanno riscontrato ben «56 focolai» della peste delle pecore e delle capre, di cui più di venti in allevamenti industriali, con una stima di «232.283 animali» a rischio a causa della malattia infettiva non solo più nella regione di Tulcea, ma anche in quelle di Costanza, Timis e Ialomita. Numeri che non rispecchiano gli sforzi di contenimento delle autorità, che hanno fatto appello ad allevatori, ma anche a chiunque abbia ovini e caprini, a «denunciare casi sospetti per prevenire la diffusione» della Ppr.
Diffusione che, tuttavia, ha già superato i confini romeni, con alta probabilità a causa dell’importazione di capi infetti dalla Romania in Grecia. Ed è proprio la Grecia, in particolare la Tessaglia – granaio del Paese già duramente colpito dalle inondazioni dell’anno scorso – il secondo fronte. Fronte che, secondo i più recenti dati resi pubblici da Atene, ha visto già quasi 20 mila animali abbattuti o da abbattere a breve per contrastare un’epidemia che rischia di mettere in ginocchio grandi e piccoli allevatori. E di far saltare la filiera della produzione della feta, il più celebre formaggio ellenico. Altri fronti, è questo il timore in molte capitali, potrebbero aprirsi a breve.
Da qui le prime contromisure. La Bulgaria, che non ha registrato casi dal 2018, ha così annunciato controlli doganali rafforzati e disinfestazione dei veicoli alle frontiere. L’Albania ha da parte sua vietato l’importazione di animali vivi e carne dai Paesi già colpiti. E la Serbia ha annunciato «l’intensificazione dei controlli su animali importati, con particolare attenzione a pecore e capre», oltre alla «disinfestazione obbligatoria» dei camion che trasportano bestie dall’estero. Con la speranza che la nuova peste non dilaghi oltre. —
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