Cecchini per divertimento a Sarajevo: un docufilm racconta quei “safari” umani durante l’assedio

Sarebbero giunti dall’estero, anche dall’Italia, forti dei loro soldi, senza alcuno scrupolo, per soddisfare qualche perverso piacere. Avrebbero pagato lautamente per arrivare in tutta sicurezza sulla linea del fronte, dalla parte serba, e per potersi trasformare - anche se solo per qualche ora - in “cecchini”, sparando su civili inermi dalle postazioni militari serbo-bosniache.
Si sta riaprendo, a 27 anni dalla fine della guerra, una questione terribile, poco conosciuta e controversa, di cui si mormorava però già ai tempi del conflitto. È quella che avrebbe avuto come protagonisti stranieri facoltosi, che durante il più lungo assedio di una città europea in epoca moderna, quello di Sarajevo, avrebbero sborsato ingenti somme per farsi “ospitare” nelle trincee degli sgherri di Ratko Mladić, sulle montagne che circondano la città per potersi esercitare in un immondo tiro al bersaglio con fucili di precisione sui sarajevesi, bimbi inclusi, in veri e propri “safari umani”.
Solo una macabra leggenda? Potrebbe non essere così. Lo sostiene un nuovo documentario del regista sloveno Miran Zupanic, non a caso intitolato “Sarajevo Safari”, prodotto quest’anno e che sarà proiettato al festival di film documentari Al Jazeera Balkans. L’opera si basa anche su testimonianze dirette di persone che avrebbero assistito ai “safari” o avuto informazioni credibili sulla storia. E che hanno trovato il coraggio di parlare e confermarla. Uno dei testimoni citati nel film, in particolare, ha raccontato – il volto oscurato per non farsi riconoscere – di aver lavorato a Sarajevo durante l’assedio per una non meglio precisata «agenzia» americana, probabilmente i servizi Usa, e di avere avuto perfino la possibilità di osservare alcuni stranieri - alcuni vestiti con uniformi da cacciatori o paramilitari - sparare sui civili assediati, a pagamento.
Nulla si sa del “tariffario”, ma la fonte ha sostenuto che «la tariffa era più alta se la vittima era un bambino». I cecchini del fine settimana, secondo il film, arrivavano in Bosnia via Belgrado, spesso in aereo e a volte anche da Trieste, che ai tempi aveva dei collegamenti diretti con la capitale serba. Da lì venivano poi trasportati sui monti sopra Sarajevo, controllati dai serbo-bosniaci, dove potevano soddisfare le loro macabre voglie.
Un’altra fonte, ai tempi operativa nei servizi informativi bosniaci, ha avvalorato questa tesi, sostenendo di aver persino «informato i servizi italiani», in questo caso il Sismi operativo a Sarajevo, che con l’aiuto del Sisde avrebbe poi «neutralizzato» una “base” in Italia che facilitava i viaggi dei ricchi stranieri, fra loro oltre a italiani anche americani, canadesi e russi. Nulla si sa sull’identità dei ricchi cecchini stranieri, su quanto siano loro costati i safari e dove sarebbero finiti i denari.
La storia, che non sarebbe neppure emersa durante i processi della giustizia internazionale su Sarajevo – dove però finì il video dello scrittore russo Limonov che sparava su Sarajevo mentre era in visita da Radovan Karadzić - ha dell’incredibile. «Penso sia rimasta celata perché nota solo a una ristretta cerchia di persone coinvolte e che, nell’essere svelata, le avrebbe esposti a rischi», spiega da parte sua il regista Zupanic. Ma nel film «due informatori confermano, uno lavorava per un’agenzia di intelligence Usa, l’altro nell’esercito bosniaco e non si conoscevano» tra loro. «Avevamo altri testimoni, all’inizio disponibili a riferire, ma che poi hanno fatto marcia indietro», rivela poi l’autore, che giustifica i forfait «con il timore di essere processati» o di finire nel mirino «di chi organizzò i safari».
Chi fosse l’organizzatore o gli organizzatori ancora oggi rimane un mistero. Ci sarebbe però stata la regia di «strutture militari», rivela Zupanic, ammettendo che, almeno per ora, «il film pone più domande che risposte», ma ribadendo la credibilità del film.
Tutto falso: menzogne, e anzi «macabra propaganda anti-serba», hanno invece reagito con sdegno i tabloid serbi, che hanno accusato Zupanic di essersi inventato tutto per gettare fango sui serbi di Bosnia. I «falsari» della storia saranno adeguatamente puniti, ha assicurato anche la presidente della Republika Srpska, l’entità serbo-bosniaca, Zeljka Cvijanović, dove si alzano voci che chiedono di vietare il film.
Anche i reduci serbi della guerra in Bosnia sono insorti, sostenendo addirittura che gli unici stranieri arrivati nel Paese in conflitto sarebbero stati islamici, loro sì venuti a «cacciare serbi». Sulle barricate anche il sindaco di Sarajevo Est, il serbo-bosniaco Ljubisa Cosić, che in una lettera aperta ha minacciato di denunciare il regista. Che su questo replica con un secco «no comment».
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