Croazia nell’Eurozona: abbracci e brindisi nell’indimenticabile festa di “Confidanno”

Racconta, il grande scrittore Predrag Matvejević, che nella primavera del 1992, mentre infuriava la guerra nei Balcani, prese un treno da Zagabria a Trieste. Il treno era pieno di donne anziane con il fazzoletto legato sotto il mento, uomini con folte barbe, gli uni e le altre con i volti riarsi dal sole. Erano profughi: «fuggivano in fondo dal destino».

Alcuni decenni prima, altri si erano fatti profughi dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia, con i volti riarsi dal sole dell’Adriatico. Non erano i primi né sarebbero stati gli ultimi, purtroppo. Oggi altri profughi vengono verso Trieste, verso questa porta tra Oriente e Occidente consacrata alla bora. Partono da molto lontano e arrivano qui, spesso con folte barbe, dopo avere attraversato a piedi le fitte foreste del Gorski Kotar e della Ciceria. Orsi, lupi, fili spinati, militari, mine, il freddo che spacca le ossa, la paura. Tutti i profughi hanno paura, ma a spingerli è la speranza.

Sì, le nostre terre continuano ad essere battute da persone che fuggono alla ricerca di un’altra vita. Da un destino, a piedi, verso un altro destino.
Eppure, nonostante i dolori, quelli del ’’900 e quelli odierni, nonostante le ferite non rimarginate e lo spaesamento che molti di noi provano in questo tempo, abbiamo il dovere di festeggiare. Bisognerebbe sempre fare festa quando la sbarra di un valico si alza per non abbassarsi più. Quando cade un confine tutti dovrebbero stappare il migliore vino che hanno in casa e condividerlo con chi hanno accanto. Soprattutto se a cadere è un confine che ha conosciuto il sangue e le lacrime.
Certo, c’è chi dice: ora che la Croazia entra nell’area Schengen e adotta l’euro, i prezzi andranno alle stelle. Oppure: arriveranno ancora più migranti, e così via (i decostruttori di professione ci saranno sempre). Ma al di là di tutti i nodi irrisolti e delle criticità, dobbiamo fare festa. Dobbiamo pensare al filo spinato che verrà smantellato e iniziare a cantare. Celebrare con semplicità e con gioia la caduta di un confine. Farci semplici e gioiosi il più possibile. Pensare che a un confine in meno corrisponda una gioia in più.

Ecco perché la mattina del 31 dicembre siamo partiti a piedi da Trieste, con le bottiglie nei nostri zaini, ci siamo diretti sul Monte Taiano, Slavnik in sloveno, abbiamo brindato all’ultimo tramonto dell’anno, e dalla cima siamo scesi a Podgorje, abbiamo camminato al buio, in fila indiana, con le nostre piccole torce, fino al valico. Lì altri amici sono arrivati, abbiamo mostrato per l’ultima volta i nostri documenti di identità, abbiamo allungato il passo fino a Jelovice, piccolo villaggio della Ciceria croata, dove ancora si conserva la tradizione delle carbonaie, dove ci sono più cervi che uomini, e siamo entrati raggianti in una locanda. L’incantata e selvatica Ciceria ci ha accolti come suoi figli. Cicceria, Čičarija, Ćićarija, chiamatela come volete, il suo incanto permane.

Abbiamo brindato spargendo auguri davanti al fuoco in tutte le lingue che conoscevamo, e poco prima di mezzanotte siamo tornati al valico. Ci siamo trovati di fronte a tanta gente, accorsa da Trieste, dall’Istria, dal Friuli e anche da più lontano, persone di ogni età con sorrisi come torce. La sbarra era giù, c’era un lucchetto, la sbarra ci divideva ancora. Poi, di colpo, a mezzanotte in punto un poliziotto la ha alzata, e tutto di colpo è cambiato.
Siamo esplosi in un grido unico di liberazione. E abbiamo fatto festa, sì, abbiamo fatto festa come se fosse l’ultima festa, abbiamo cantato fino a perdere tutte le voci. Ci siamo abbracciati e ci siamo affratellati. Qualcuno ha pianto, come si piange davanti all’alba che segue l’ultimo giorno di guerra, un’alba che assomiglia a una bandiera bianca, o a una speranza di pace duratura. Eravamo a venti chilometri in linea d’aria da Trieste, dalle luci di piazza Unità, ma avevamo la sensazione di essere in un altro mondo. Soprattutto abbiamo pensato di essere nel posto giusto al momento giusto. Abbiamo visto bambini e ragazzini ballare nella notte e abbiamo detto ai loro genitori: bravi. Siete stati bravi a portare qui i vostri figli. Non dimenticheranno questa festa.
Ciascuno di noi si è sentito un uomo-ponte, una donna-ponte, una creatura che costruisce ponti tra terre e persone, e che se si trova d’innanzi a un ponte distrutto si rimbocca le maniche e si adopera per costruirne uno nuovo. Anche se non lo sa fare. Ci prova, come può.
Non abbiamo festeggiato il Capodanno ma il Confidanno. L’inizio di un anno con un confine in meno e un ponte in più, il primo di molti ponti e di strette di mano in più. Nessuno di noi potrà mai dimenticarlo.
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