Festa nazionale dei Serbi di Bosnia: Dodik rilancia sulla secessione

Celebrata ancora una volta la Giornata dichiarata incostituzionale dalla Corte di Sarajevo

Stefano Giantin
Sfilano i soldati dell’esercito della RS
Sfilano i soldati dell’esercito della RS

BELGRADO Anno nuovo, vecchi problemi, in uno scenario sempre più preoccupante, all’insegna di rinnovate minacce di secessione. Scenario che riguarda la Bosnia-Erzegovina, dove anche ieri è andata in scena in metà Paese - ossia nell’entità serbo-bosniaca – la cosiddetta “Giornata nazionale della Republika Srpska” (Rs), malgrado la festività sia stata dichiarata incostituzionale e dunque illegale dalla Corte costituzionale bosniaca già nel 2015 perché discriminatoria verso i “non serbi”, ossia bosgnacchi e croati.

La Giornata, che si celebra ogni anno il 9 gennaio, ricorda la proclamazione della Rs nel 1992, tre mesi prima che la guerra civile intestina iniziasse a mietere decine di migliaia di vittime. Anche ieri a Banja Luka, il cuore politico dei serbi di Bosnia, è stata così rappresentata la glorificazione della repubblica, tra tricolori serbi e discorsi incendiari. In agenda anche una seduta speciale del parlamentino serbo-bosniaco, una parata di reparti della polizia e delle forze di sicurezza di Banja Luka e persino un grande spettacolo pirotecnico in contemporanea – mossa simbolica importante – nella Rs e a Belgrado. Tutto è andato in scena malgrado l’anno scorso l’Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia, Christian Schmidt, avesse promesso che non ci sarebbero stati più 9 gennaio nel Paese balcanico.

Ma il leader nazionalista serbo-bosniaco, il filorusso Milorad Dodik, oggi presidente della Rs, non riconosce da tempo l’autorità di Schmidt e nemmeno quella della Consulta. E Dodik è stato ancora una volta il primo attore dello show, rispolverando tutto il repertorio conosciuto, ma non meno pericoloso per l’unità e la tenuta del Paese balcanico. A Srebrenica? «Non ci fu alcun genocidio», ha detto così Dodik alla vigilia dei festeggiamenti, assicurando che i leader serbi non hanno alcuna responsabilità per i crimini di guerra compiuti. Non l’hanno neppure il macellaio di Srebrenica, Ratko Mladić, e il capo politico dei serbi di Bosnia durante la guerra, Radovan Karadžić, «combattenti per la libertà» condannati dalla giustizia internazionale solo perché colpevoli di aver «guidato la Republika Srpska». Repubblica serbo-bosniaca che è solo temporaneamente separata «dalla madre Serbia», un’altra delle provocazioni di Dodik. «Non vogliamo stare qui», nella Bosnia-Erzegovina unita, ha ribadito ieri il leader di Banja Luka all’agenzia Afp, rinfrescando le mai sopite velleità secessionistiche. «Siamo mentalmente integrati con la Serbia, certo, siamo in Bosnia ora, ma non perché lo vogliamo» e se ci fosse un referendum popolare tra i serbo-bosniaci la «gente sosterrebbe» la separazione. Separazione che lentamente è di fatto già iniziata, con Banja Luka che mira a sottrarre competenze allo Stato centrale e soprattutto a controllare le proprietà pubbliche sul territorio dell’entità. Se qualcuno si metterà di traverso, come Schmidt, «andremo in Parlamento e decideremo l’indipendenza, ci ritireremo dall’esercito, dalla polizia, dalle istituzioni comuni», la minaccia dell’arma finale da parte di Dodik.

Minaccia che ha spinto l’Ue e non solo a reagire. «Ogni azione» contro l’integrità territoriale della Bosnia «porterà a gravi conseguenze», ha dichiarato ieri Bruxelles. Il 9 gennaio è «incostituzionale» e gli Usa «non esiteranno ad agire in futuro» se i serbo-bosniaci decidessero di passare dalle parole ai fatti. E qualcosa già si muove: dei caccia Usa, con un’azione dimostrativa molto forte, hanno sorvolato in settimana i cieli di Bosnia. La Procura di Sarajevo indaga su possibili reati commessi ieri.

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