Fogolèr. La fuga in treno di una famiglia istriana dalla Jugoslavia di Tito

Grazia Del Treppo racconta l’esodo avvenuto nel 1951 dalla città natale di Canfanaro per approdare a Torino

Andrea Giuseppe Cerra
L’arrivo del treno nella stazione di Canfanaro
L’arrivo del treno nella stazione di Canfanaro

«Il treno era fermo e si dovette salire. Per me fu il primo grande dolore dei miei piccoli nove anni. Ricordo perfettamente ogni istante: il cuore mi batteva forte forte, le tempie mi bruciavano, lo sguardo si annebbiava. Sentivo solo piangere e gridare: “Addio, Bog, Arrivederci, Doviđenja”. Nessuno di noi aveva la forza di rispondere. Sventolammo i fazzoletti. Il treno si mosse sibilando; il nostro bel campanile ci diede l’addio coi suoi rintocchi» scrive Grazia Del Treppo, nata a Pola nel 1941. L’autrice di “Fogolèr. Storia di una famiglia istriana” (Ares, pp. 304, euro 20), ha lasciato la città natale a 10 anni, per proseguire la sua vita a Torino.

Il titolo del testo rimanda all’antico focolare, che è stato per secoli il cuore della casa istriana, luogo di confidenze e ricordi tra le generazioni. È il simbolo di una vita abbandonata da migliaia di italiani costretti a fuggire dalle violenze dei titini. Nel volume di Del Treppo, si intreccia la storia di una famiglia con un pezzo di Storia del Novecento.

La concordia nelle piccole comunità rurali spezzati dalle ideologie totalitarie che condussero l’Europa e il mondo nel secondo conflitto mondiale, la prigionia dei genitori, la minaccia delle foibe, la scelta drammatica dell’esodo e la vita precaria nei campi profughi disseminati in tutta la penisola italiana, il coraggio e il desiderio di riscatto sono narrati dall’autrice con grande schiettezza, semplicità, nostalgia e un tocco di amara ironia.

Un testo nel quale l’autrice ci offre, nella prima parte, un affresco della vita e dei luoghi familiari del suo paese d’origine, Canfanaro: la contrada dove abitavano i nonni materni, Zanetto soprannominato “Fatutto” e la moglie Gigia; la proprietà dei futuri suoceri, detta “i Becheri”, dal mestiere di Simone Del Treppo, macellaio; le vicende dell’amore appassionato dei suoi genitori, Andrea e Stefania, inizialmente contrastato dalle rispettive famiglie; infine la nascita della primogenita Grazia il 5 maggio 1941.

La narrazione si svolge in brevi capitoli, bozzetti pieni di affetto, riconoscenza e rimpianto, per un mondo perduto per sempre, ma che ha temprato un popolo, grazie a una radicata fede cattolica e a una vita comunitaria fatta di legami solidissimi. La seconda parte è segnata da quella Storia con la S maiuscola che ancora oggi molti si ostinano a non raccontare oppure lo fanno in modo molto parziale. Durante l’occupazione nazista, il 9 febbraio 1944, le SS impiccarono don Marco Zelco, ingiustamente calunniato; il 24 agosto 1947 don Miroslav Bulešić fu sgozzato da partigiani titini che non sopportavano la sua grande capacità di affascinare i giovani e portarli in chiesa, strappandoli così alle sedi del Partito Comunista.

L’autrice rende omaggio alla figura di don Miroslav sottolineando che nel 2013 è stato beatificato in una solenne cerimonia a Pola, alla presenza di migliaia di fedeli. «Devo ringraziare i miei genitori e i miei nonni se ho potuto vivere la nostra dolorosa storia senza permettere che nell’animo si infiltrassero sentimenti di odio e di rabbia, di cattiveria e di vendetta; no, non abbiamo mai permesso neppure per un istante che questi veleni si impadronissero dei nostri pensieri e del nostro cuore», scrive Del Treppo, restituendoci lo spirito che a condotto a questo scritto a più di settant’anni da quei fatti. Lo storico Roberto Spazzali, autore della prefazione, ci ricorda la dimensione da cui prende le mosse il testo frutto dei ricordi di «una bambina, a piedi, attraverso la bufera del Novecento, con la leggerezza dell’età e lievità dell’innocenza. Una bambina testimone lontana da ogni retorica della memoria».

Ecco, in quell’ambiente cresce e si sviluppa la vicenda che Grazia Del Treppo andrà a narrare nelle pagine successive. Il lettore tenga conto di tre fattori qui accennati: l’ambiente plurilinguistico, italiano e croato – o meglio, dei dialetti istro-veneti e ciacavi; la plurisecolare dimensione intima di Canfanaro e dei suoi borghi rispetto all’impeto degli eventi storici. Un tempo durissimo, pieno di privazioni e pure di umiliazioni per le quali Grazia Del Treppo non ha mai portato rancore ma indubbia nostalgia per la sua Canfanaro che lasciò un giorno senza mai abbandonarla per il resto della sua vita. —

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