In Serbia riemerge l’ipotesi della maxi miniera di litio: trecentomila firme per lo stop al progetto

Dopo la battuta d’arresto decretata da Belgrado alla luce delle proteste gli ambientalisti rilanciano l’allarme. Ma la premier: «Il no è definitivo»

Stefano Giantin
Dicembre 2021: una delle proteste a Belgrado che portarono allo stop del progetto Jadar Archivio
Dicembre 2021: una delle proteste a Belgrado che portarono allo stop del progetto Jadar Archivio

BELGRADI Una nuova battaglia sembra incubare nei Balcani: non è un ritorno alle armi e agli Anni Novanta, ma un conflitto moderno per l’accaparramento delle risorse. Risorse preziosissime come l’oro bianco, quel litio di cui la regione sarebbe ricchissima, ma che buona parte della popolazione vede come una minaccia all’ambiente. Il tema litio a sorpresa sta tornando prepotentemente d’attualità in particolare in Serbia, scossa in anni passati da massicce manifestazioni di piazza che avevano portato allo stop al cosiddetto Progetto Jadar, mega-miniera per l’estrazione del litio che sarebbe dovuta sorgere nell’area di Loznica, nella Serbia occidentale, su spinta del colosso Rio Tinto.

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Il progetto, accantonato dalle autorità di Belgrado, non sarebbe però stato realmente archiviato. È quanto ha denunciato l’organizzazione radicale Ekoloski Ustanak (Rivolta Ecologica), da anni in prima linea contro lo sfruttamento del litio nel Paese balcanico, che ha sostenuto che il governo serbo avrebbe ingaggiato un’agenzia americana, il Rendon Group - specializzata in lobbying e comunicazione strategica con anche attività controverse legate a Iraq e Afghanistan e presunti stretti legami con la Casa Bianca - per rispolverare il progetto Jadar.

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Una delle proteste e, a destra, la premer serba Ana Brnabić che ha confermato lo stop al progetto

La pistola fumante sarebbe un documento del Rendon dedicato proprio alla Serbia e al fallito investimento di Rio Tinto, in cui si consiglia come «ribaltare» le posizioni negative della popolazione serba verso l’estrazione del litio, sul modello del Tap, il gasdotto che oggi trasporta metano in Italia via Grecia. E per la Serbia il litio è una «opportunità troppo grande da perdere» e al contempo una faccenda «complessa, ma anche una sfida che si può vincere», si legge nel documento.

Belgrado «ha ingaggiato il Rendon Group» e dietro le quinte si sta «lavorando alla continuazione del progetto Jadar», ha così attaccato Ekoloski Ustanak, mentre Jovan Rajić, dell’autorevole organizzazione Reri, ha sostenuto a Voice of America che il progetto Jadar non sia mai stato davvero del tutto cassato: Rio Tinto «continua a essere registrata» in Serbia, «ha dipendenti e non sono dei pazzi a perdere soldi ogni giorno se pensassero che il progetto» non partirà. Sulla stessa linea l’Ong Kreni-Promeni, che ha appena consegnato alla Delegazione Ue a Belgrado quasi 300mila firme di serbi contro il litio e per «lo stop al progetto Jadar».

Ma «il mio governo ha messo un punto» definitivo sullo Jadar, è la replica delle autorità al potere: la premier Ana Brnabić ha assicurato anche di «non sapere chi è quell’uomo», ossia John Rendon, l’eminenza grigia del Rendon Group. Sul litio la parola fine è stata scritta dopo massicce proteste di piazza e i blocchi stradali, ha ribadito la premier, senza entrare troppo in dettagli di un misterioso memorandum Serbia-Ue firmato a settembre proprio su batterie e elementi critici tra cui il litio.

Chi ha ragione? I dubbi, in Serbia, sono tanti. E non aiutano azioni e parole di Rio Tinto, che ha detto sì di rispettare le decisioni di Belgrado, ma di «credere ancora» nel progetto Jadar. E ha presentato nove cause contro il governo serbo per lo stop, ha informato ieri l’agenzia Beta.

Intanto la febbre dell’oro bianco si estende, nei Balcani, con la Bosnia indicata come la nuova frontiera, con potenziali grandi giacimenti nel mirino in questo caso di un colosso svizzero. E localizzati a soli 50 km dalla serba Loznica.

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