Lo scrittore e dissidente Lubonja: «La mia bellissima Albania fra grattacieli vuoti e criminalità»
Classe 1951, arrestato nel 1974, restò nelle prigioni di Enver Hoxha fino alla caduta del regime

TRIESTE. Fatos Lubonja non è ottimista e non lo nasconde. Lo scrittore e dissidente albanese ha attraversato il periodo più difficile nella storia contemporanea del suo Paese, e nel futuro pare non vedere niente di buono.
Nato a Tirana nel 1951, Lubonja ha passato 17 anni nelle prigioni di Enver Hoxha. Era il 1974 e aveva appena concluso gli studi in Fisica teorica, quando fu arrestato per agitazione e propaganda contro il regime. Rimase in carcere fino alla caduta del regime, nel 1991. «Quando mi hanno arrestato le mie figlie avevano un anno e mezzo e un mese. Le ho ritrovate che avevano compiuto 17 e 18 anni», ricorda Lubonja, che alla sua prigionia ha dedicato un libro - tradotto anche in italiano (“Diario di un intellettuale in un gulag albanese”, Marco Editore) - per il quale ha vinto il Premio Moravia.
Una storia dura, fatta di lavori forzati e mesi d’isolamento. Lubonja la racconta senza tirarsi indietro. «Negli anni Settanta Enver Hoxha lancia tre purghe contro i “liberali”, cioè chiunque non condividesse la sua versione del comunismo». È un periodo in cui l’Albania è isolata dal mondo, ha rotto con l’Unione sovietica da qualche anno, rimanendo fedele allo stalinismo e l’unico alleato rimasto è la Cina maoista. Sull’esempio di Mao, Hoxha decide di epurare i settori di cultura, esercito e economia; in una di quelle purghe finisce in manette Todi Lubonja, il padre di Fatos, vicino al dittatore ma improvvisamente dichiarato «nemico del popolo». Il figlio nasconde in fretta i suoi diari, in cui critica apertamente il regime, ma la polizia politica li scopre e lo arresta.
A 23 anni Fatos Lubonja inizia la sua via crucis fra i campi di lavoro dell’Albania comunista, mentre la famiglia, condannata al confino, è spostata da una città rurale all’altra. «Vengo mandato al campo Spaç, dove lavoravamo in una miniera di cromo in tre turni», racconta lo scrittore. Inizialmente condannato a 7 anni, riceve una nuova condanna nel 1979, quando due prigionieri – «due conoscenti» – scrivono una lettera aperta contro il regime. Saranno condannati a morte, mentre Lubonja, che pure non aveva sottoscritto il testo, vede la sua pena prolungata di altri 16 anni. «Torno in libertà nel 1991, ma solo perché cade il regime. Altrimenti avrei continuato a scontare la mia pena per altri quattro anni».
La libertà a 40 anni è una rinascita per Lubonja, e gli anni Novanta sono per l’Albania «un periodo pieno di speranze». Con la scrittura Lubonja cerca «di dare un senso alla sofferenza vissuta», mentre lancia la rivista culturale Përpjekja (“Impegno”) e diventa segretario generale del Comitato Helsinki per i diritti umani in Albania. La transizione democratica però s’inceppa. «L’Albania usciva da un collettivismo forzato, in cui tutto era nelle mani dello Stato. Non si era costruita una società. Gli albanesi erano come bambini non cresciuti e rimasti senza genitori. Improvvisamente abbracciavano l’ideologia trionfante, quella del neoliberismo, secondo cui non esiste la società ma soltanto individui», analizza Lubonja, spesso accostato a Pasolini albanese per il suo sguardo critico e lucido sulla società. A quel punto gli albanesi «si lanciano senza controllo»: l’emigrazione in Grecia e in Italia, gli abusi dei politici, le piramidi finanziarie e il caos del 1997. «L’Albania si è appoggiata al crimine per sopravvivere», conclude Lubonja, che oggi - fra «grattacieli vuoti» e «crimine organizzato» - prevede un futuro «molto nero» per il suo «bellissimo» paese: «Come disse Pasolini, il mio pessimismo viene dal grande ottimismo che ho avuto. Il bello è stato provare a cambiare le cose».
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