Il ricordo delle bombe su Belgrado riaccende la protesta in Serbia

La manifestazione nella capitale per i 26 anni dai raid degli aerei Nato sulla capitale. L’appello a non vendere il palazzo del Generalštab, simbolo di quei giorni, finito nelle mire dei Trump

Stefano Giantin
La manifestazione studentesca in Serbia
La manifestazione studentesca in Serbia

​​​​La stragrande maggioranza non era neppure nata quando le prime bombe e i missili caddero sull’allora Jugoslavia di Slobodan Milošević. Ma 26 anni dopo sono forse proprio loro, i giovani e gli studenti serbi, sulle barricate da mesi, l’ultimo fronte di resistenza per salvare la memoria – in questo caso architettonica – dei dolorosi giorni dei bombardamenti Nato del 1999. Lo si è visto ieri a Belgrado, dove a migliaia hanno marciato stavolta non verso Parlamento, televisione pubblica o sedi istituzionali nell’ennesima manifestazione delle proteste popolari scoppiate dopo la tragedia alla stazione di Novi Sad. I ragazzi si sono invece diretti all’incrocio tra i grandi viali Kneza Miloša e Nemanjna, verso le rovine del Generalštab, imponente palazzo che fino al 1999 ospitava il ministero della Difesa serbo, prima di venire sventrato dai missili della Nato.

La mobilitazione è avvenuta proprio il 24 marzo, anniversario dell’inizio dei bombardamenti. Fra gli obiettivi centrati, non uno dei tanti danni collaterali ma un target scelto con cura, ci fu anche il Generalštab, un tempo orgoglio e centro di comando dell’apparato militare nazionale, edificio costruito tra il 1955 il 1965 in pietra rossa di Kojsjerić e marmi di Brač, in stile modernista e su disegno del grande architetto Nikola Dobrović. Che riuscì a rievocare nella struttura del palazzo – diviso in due parti – la gola del fiume Sutjeska, dove si combatté una delle battaglie più importanti tra i partigiani di Tito e le forze di occupazione nazifasciste. Il palazzo non è mai stato ristrutturato, rimanendo così vivida testimonianza dei bombardamenti.

Ma gli anni di Josip Broz e pure il 1999 sono lontani. Oggi, il Generalštab è sinonimo di Trump Tower, il grande complesso residenziale e di hotel di lusso dietro cui ci sono appunto i Trump, in testa il genero Jared Kushner, affiancato da Eagle Hills, gigante arabo “locomotiva” dell’altrettanto controversa Belgrado sull’acqua. Il progetto prevede che il Generalštab sia “tolto” ai belgradesi e demolito, dopo aver perso in maniera discutibile lo status di monumento di interesse storico, per lasciar campo libero alle Torri dedicate all’attuale inquilino della Casa bianca. Il mega affare ha il beneplacito delle autorità, AleksandarVučić in testa, che di recente si è proprio paragonato al presidente Usa come vittima dei media.

Gli studenti – e non solo – non ci stanno. «Proteggere i monumenti è un modo per conoscere il passato, capire da dove veniamo e dove andremo», hanno detto all’inizio della manifestazione di ieri, mentre sui seguitissimi profili social hanno postato video commoventi sui bombardamenti. «Erano solo dei bambini», si vede in quello della Facoltà di Elettrotecnica, con foto dei giovani uccisi dalle bombe. «Il popolo che custodisce la sua cultura, la sua storia e il suo patrimonio difende sé stesso», ha fatto eco “Studenti u blokadi”, il profilo Instagram da cui gli indignados comunicano con il resto della popolazione. Il Generalštab non va demolito, dicono i manifestanti, che hanno avviato una raccolta firme.

«È giunto il tempo della ricostruzione della nazione», recitava lo striscione sul palco, protetto dai veterani. Nel 1999 «la comunità internazionale rimase in silenzio, noi oggi non lo facciamo», ha arringato la folla la studentessa Dunja Stanojković. Se sarà Trump Tower la Serbia «perderà la sua identità e il suo passato», ha avvisato l’ex direttrice dell’Agenzia per la protezione dei monumenti Estela Radonjić Živkov. In tanti sono pronti a dar battaglia.

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