Quando Saragat in una Belgrado piena di tricolori conferì a Tito l’onorificenza che ora la destra vuole revocare

TRIESTE Da oggi si discute alla commissione Affari istituzionali della Camera l’emendamento del Partito democratico per la cancellazione del cavalierato di Benito Mussolini. L’emendamento è stato proposto – in un dibattito che prosegue da mesi se non da anni – come aggiunta alla proposta di Fratelli d’Italia per l’eliminazione post mortem dell’onorificenza a Josip Broz Tito, che sarà discussa a partire da lunedì in aula.
Secondo uno dei tre proponenti meloniani, il deputato Fabio Rampelli, «la medaglia al merito della Repubblica italiana fu conferita al dittatore comunista dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1969 per una incomprensibile realpolitik». Ma quanto avvenne è davvero «incomprensibile» in termini storici? Ripercorrere le cronache di quei giorni consente di collocare nel suo contesto la “Gran Croce al Merito” del dittatore jugoslavo.
Il contesto storico
Il 2 ottobre del 1969 il presidente Saragat sbarcava a Belgrado per una visita di quattro giorni nell’allora Repubblica federativa. Quella visita era il sigillo sul riavvicinamento diplomatico tra i due Paesi, tanto che in quella prima giornata Saragat disse al dittatore jugoslavo:
«Quello che è avvenuto fra noi può essere di esempio anche per quanto si deve fare su un piano più vasto per la soluzione dei grandi problemi del nostro continente».
Tanta enfasi è comprensibile se si guarda agli eventi in sequenza. Calata la Cortina di ferro, Italia e Jugoslavia sono ai ferri corti sul confine orientale, “tamponato” momentaneamente dalla presenza degli alleati. Negli anni Sessanta, però, Tito è ormai una figura diversa: ha il memorandum di Londra alle spalle, ha rotto con Stalin e l’Urss, è il capofila dei paesi non allineati. Dimenticato il terrore staliniano scatenato nei primi anni del suo potere, Josip Broz è una figura di comunista “presentabile” agli occhi degli occidentali, danza con la regina Elisabetta, accoglie statisti e figure del mondo dello spettacolo nei suoi palazzi.

Vantaggi economici
A Roma, al contempo, la classe dirigente repubblicana inizia a riflettere sui vantaggi economici che potrebbero derivare da una pacificazione delle tensioni adriatiche. A partire dal 1967 i rapporti economici fra i due Paesi vanno intensificandosi, e una nuova fase della politica italiana sembra favorire un’intesa. Dai vertici dello Scudo crociato, il presidente del Consiglio Mariano Rumor e il ministro degli Esteri Aldo Moro guardano con favore all’idea del riavvicinamento anche per questioni di politica interna, ove alla Balena bianca non spiacerebbe arrivare a un modus operandi con il Pci.
Ragioni concatenate
Lo storico Raoul Pupo vede oggi una combinazione di ragioni alla base degli eventi che in quel momento portarono all’onorificenza. Il primo è «il valore strategico della Jugoslavia per la difesa del fianco sud della Nato ed in particolare del fronte italiano», cui si aggiunge «il mito largamente condiviso della resistenza jugoslava come modello di opposizione armata e liberazione dal nazifascismo, senza vedere gli aspetti oscuri di quell'esperienza». Infine, le questioni interne al mondo socialista fra Est e Ovest: «C’era ammirazione in Occidente, e in particolare negli ambienti socialisti, per la capacità di Tito di resistere a Stalin». Gli esperimenti di «autogestione» jugoslavi, poi, suscitavano interesse in quegli stessi ambienti socialisti democratici, perché sembravano «voler esplorare una terza Via fra capitalismo e comunismo».

La distensione adriatica
Lo storico Patrick Karlsen ricorda che quegli erano gli anni della «distensione adriatica»: «Le classi dirigenti repubblicane e quelle della Jugoslavia comunista avevano individuato una serie di terreni di cooperazione, anche perché la posizione internazionale della Jugoslavia collimava con alcune aspirazioni e obiettivi della politica estera italiana. Da sempre attenta al mondo neutralista del Nord Africa e del Medioriente, l’Italia repubblicana trovava nella Jugoslavia non allineata un importante partner di collegamento con questi settori della geopolitica internazionale».
Saragat a Belgrado
Si arriva così al fatidico 1969, quando il presidente della Repubblica decide infine di andare a far visita la dittatore. I giornali dell’epoca parlano di una Belgrado pavesata di tricolori, a imitazione di quel che Bucarest aveva fatto durante una recente visita di Richard Nixon, accogliendo il presidente americano con una pioggia di bandiere stellate.
Nel suo discorso Tito tesse le lodi dello spirito Risorgimentale italiano:
«La collaborazione attuata in questo spirito tra gli antifascisti italiani e jugoslavi nel corso della seconda guerra mondiale ha reso più facile il superamento della pesante eredità del passato cui abbiamo dovuto far fronte per creare le condizioni di sviluppo e di nuovi rapporti su basi di eguaglianza e di reciproco rispetto».
Saragat risponde auspicando una conferenza fra i paesi europei affinché «in un processo graduale di distensione attraverso l’approfondimento di reciproci contatti e la soluzione di problemi meno controversi, si possa arrivare ad una conferenza capace di affrontare i grandi problemi della stabilità e della pace in Europa».
Lo scambio di onorificenze
È in questa occasione che i due capi di Stato si scambiano le onorificenze: la “Grande stella jugoslava” per l’italiano, la “Gran croce al merito della Repubblica” per lo jugoslavo.
Delle violenze avvenute durante e dopo la Seconda guerra mondiale non si fa cenno da nessuna delle due parti, la ragione è evidente: i fatti sono freschi, la parte che sollevi il problema dei torti subiti dovrebbe poi rispondere di quelli inflitti. Si preferisce soprassedere. È così che sul piano nazionale la questione dell’italianità adriatica è pressoché obliata dalle forze politiche, e resta appannaggio dell’estrema destra – esterna all’arco costituzionale – che non deve porsi il problema di rispondere dei crimini fascisti nell’occupazione dei Balcani, potendo facilmente ignorarli.
I frutti dell’accordo
Tutte questioni remote, in ogni caso, nei pensieri della classe dirigente italiana del Boom economico. Negli anni a venire si vedranno i frutti concreti dell’accordo: il maresciallo Tito sarà ospite in Italia, la Fiat di Gianni Agnelli sbarcherà nella Jugoslavia comunista per produrre le sue automobili, le relazioni continueranno a distendersi portando infine al contestato accordo di Osimo. Sono storie, queste, del Novecento: morto Tito, finita la Guerra fredda, dissolta la Jugoslavia, le ragioni pressanti che portarono a quei passaggi diplomatici perdono la loro immediata chiarezza. In Italia come nell’ex Jugoslavia, le questioni nazionali rimosse dopo il massacro della Seconda guerra mondiale si riaffacciano al dibattito pubblico, chiedendo conto.
Una questione politica
Per lo storico Giuseppe Parlato il punto oggigiorno «riguarda più la politica che la storia»:
«L’Italia non aveva certo ragioni per conferire un’onorificenza a Tito. La stessa assegnazione della Croce al merito fu già allora una questione politica, perché si cercava di avere buoni rapporti con la Jugoslavia».
Prosegue il professore: «Personalmente sono d’accordo sulla revoca dell’onorificenza, ma mi rendo anche conto che queste operazioni sono sempre frutto di un dato momento politico che rilegge il passato secondo una certa impostazione. Sono due cose differenti, ma se un Comune toglie la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, non vedo perché non si possa togliere la Croce al merito a Tito. Si tratta però del piano del giudizio civile, non di quello storico».
La complessità del Novecento
Per Karlsen «agli occhi di oggi pare assurdo che una figura come Tito abbia ottenuto una onorificenza dalla Repubblica. Ma questa è la complessità del secolo, la complessità del Novecento».
Un intrico che diventa «interessante se collocato nel suo contesto»: «Se spiegati, questi fatti illuminano passaggi ed episodi interessanti del nostro passato europeo. Meglio capire perché sono avvenuti piuttosto che cancellarli con un colpo di spugna, un approccio limitante che lascio alla politica».
Anche Raoul Pupo segna la differenza di ambito fra lo storico e il politico, non entrando nel dibattito. Contribuisce però a problematizzarlo, ricordando ad esempio come Gaetano Collotti – capo della sanguinaria “banda Collotti” nella Venezia Giulia annessa al Reich – ancora oggi sia titolare di una (postuma) medaglia di bronzo al valor militare.
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