Reportage nella Serbia che protesta e chiede il cambiamento
Le voci dei manifestanti di tutte le età uniti da un obiettivo: «Niente dovrà essere più come prima». Studenti in prima linea: «Vogliamo scegliere noi i ministri e il prossimo governo»
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Rabbia, delusioni e risentimenti accumulati per più di un decennio, che ora esplodono in tutta la loro virulenza. Accuse contro una élite al potere vista come una Piovra, che fa solo finta di ascoltare le petizioni della piazza, ma in realtà vuole mantenere la presa su soldi e poltrone. E un movimento via via più eterogeneo, ma sempre con gli studenti alla testa, organizzato, pacifico e allo stesso tempo arrabbiato, senza un leader, ma dalle richieste precise, definite via democrazia diretta. Davanti a tutto quelle che chiedono «giustizia». Sono le tessere del puzzle della gravissima crisi in corso in Serbia, segnata da quotidiane proteste di piazza, iniziate dopo la tragedia alla stazione di Novi Sad, attribuita dagli “indignados” a un sistema politico corrotto e a istituzioni che avrebbero abdicato al loro compito.
Dialogo tra sordi
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Le autorità, in testa il presidente Aleksandar Vučić, assicurano che ci sarà giustizia per le 15 vittime e trasparenza sulle indagini. Chi manifesta però non ci crede, in un dialogo tra sordi che potrebbe portare a uno scontro più cruento tra le “due Serbie”. Ma dove va, la Serbia? E quale l’obiettivo delle manifestazioni? In primis, obbligare Vučić e governo dimissionario a soddisfare quattro richieste principali (su indagini e documentazione relativa ai lavori alla stazione di Novi Sad, inchiesta su violenze contro manifestanti, procedimenti penali contro studenti e professori, aumenti al comparto dell’educazione). E Vučić dice di averle adempiute, senza dimenticare le dimissioni del premier Vučević, ma «le richieste non sono soddisfatte», replicano gli studenti.
Da Belgrado a Novi Sad
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Così, nel frattempo, da Belgrado a Novi Sad sale la voglia di un cambiamento più radicale. La si coglie parlando con chi manifesta, blocca università, scuole, ponti e strade. E osservando cartelli che paragonano Vučić a Hitler – «entrambi hanno governato 13 anni». Quel duro slogan, con annesso errore storico, lo ha vergato Lena, studentessa di Economia, prima di occupare con migliaia di altri ragazzi il ponte autostradale Gazela, una delle tantissime «blokade» registrate da più di cento giorni nel Paese. «Cosa vogliamo? Tutto e non ci fermeremo», assicura Lena. Sino a quando? Finché «saranno gli studenti a scegliere i ministri». Dietro di lei stanno gli studenti che, poco prima, avevano alzato in aria quindici cartelli rossi con i nomi delle vittime di Novi Sad, scritti con pennarello nero, una rosa bianca macchiata di rosso con dello spray a evocare il sangue versato, fiori poi gettati nella Sava dal ponte Gazela.
Richieste non soddisfatte
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«Le nostre richieste non sono state soddisfatte, malgrado quello che dice Vučić e se dovesse pubblicare veramente tutta la documentazione su Novi Sad sarebbe la sua fine», dice una di loro, Jelena, che assicura che «tutti ci sostengono, tutte le generazioni». «I bambini e i ragazzi senza scuola da mesi? Questa è una lezione ed è la più importante», afferma un’altra giovane, una ricercatrice, sul petto la spilla simbolo delle proteste, la mano aperta color sangue. Posizioni condivise da molti. La conferma dal massiccio sostegno dei genitori allo stop alle lezioni, incluse tantissime elementari. «In questa situazione i nostri figli non devono andare a scuola, finché non cambieremo la società», spiega Aleksandra, mamma di un bambino di otto anni. Molto più pessimistico è invece Dusan, esperto di informatica. «Hanno rubato tutto, stanno trasferendo i soldi all’estero e hanno abbandonato il Kosovo, ora non si torna più indietro, finché non se andranno», leggi Vučić e i suoi, afferma.
Servirebbe un nuovo Djindjic
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«La situazione è complicata, non abbiamo un’opposizione forte e ci servirebbe un nuovo Djindjic», il premier europeista assassinato nel 2003, «ma non c’è», commenta invece un giovane attore, Matija, con la maschera di Batman, uno dei simboli delle proteste. Quanto dureranno? «Quando i serbi si batterono contro Sloba», con Milosevic, «lo fecero per dieci anni, ci vuole un po’ di pazienza», considera Batman, che poi conferma che c’è timore di «provocazioni da parte di Vučić, è il suo stile». A dar man forte agli studenti, anche tanti adulti e anziani. «Tutto questo è importante, per la libertà, per vivere in un Paese normale, dove ci possiamo sentire sicuri», afferma Gordana Vujicic, casalinga. Che poi spiega il perché dell’esplosione della rabbia popolare. «Per la gente comune solo uno Stato che rispetta le leggi può garantire libertà e pace», ma dopo Novi Sad «abbiamo paura, non sono più sicura che entrando in un palazzo non mi crolli addosso». «La Serbia non sarà più com’era, servirà tempo, ma tutto sta cambiando», assicura anche Ljiljana, pensionata.
Il presidente Vučić
Sarà così? Di certo non lo pensa il presidente Vučić che da una parte invita al dialogo, dall’altra giura che il potere non si conquista nelle piazze, ma alle urne. E nel weekend è in arrivo una possibile prova di forza. E proprio in strada: Vučić e sostenitori si ritroveranno in Vojvodina, i giovani “indignados” serbi saranno a Kragujevac.
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