Sanzioni Usa al gruppo Nis: Belgrado chiede un rinvio

Il gruppo serbo, controllato da Gazprom, è finito nella lista nera di Washington. L’unica soluzione per Vučić è «l’uscita di tutte le persone collegate alla Russia»

Stefano Giantin

Una preghiera, anzi due, per cercare di posticipare il redde rationem, scongiurando un potenziale imminente stop a uno dei più importanti colossi dell’energia in un Paese balcanico-chiave, la Serbia. Preghiere che riguardano il destino, ancora del tutto aperto, della Naftna Industrija Srbije (Nis), gigante serbo degli idrocarburi finito nel mirino degli Stati Uniti nell’ambito di un ampio pacchetto di sanzioni contro la Russia e in particolare contro Gazprom.

Gazprom protagonista in Nis

Gazprom che, ricordiamo, è protagonista in Nis dal 2008, quando Belgrado decise di liberarsi del pacchetto di maggioranza nell’azienda, incassando solo 400 milioni di euro e promesse per altri 500 milioni di investimenti russi in Nis. Oggi, diciassette anni dopo, Nis rimane saldamente in mano a Mosca, con Gazpromneft che controlla il 50% di Nis, il 6,15% in mano a Gazprom, una quota intorno al 30% sotto il controllo del governo serbo e le frazioni rimanenti a piccoli azionisti. Ed è un problema per Washington quella ingombrante presenza russa nel cuore dei Balcani e nei corridoi del potere di Nis.

Le aziende sotto sanzioni

Da qui la decisione, a gennaio, di inserire anche Nis nella lista delle aziende sotto sanzioni, dando tempo a Belgrado fino al 25 febbraio per trovare una soluzione che non potrà che essere quella dell’«uscita dall’azienda di tutte le persone collegate alla Russia», aveva svelato lo stesso presidente serbo, Aleksandar Vučić. Il 25 febbraio è dietro l’angolo. E mentre a Belgrado continuano le più gravi proteste di massa degli ultimi decenni, le autorità sembrano brancolare nel buio. Cosa fare? Ritardare almeno l’entrata in vigore delle sanzioni, che potrebbero causare uno stop alle raffinerie Nis, alimentate da greggio in arrivo dalla Croazia.

La richiesta di rinvio

È la richiesta che il Nis ha ufficialmente presentato all’Office of Foreign Assets Control di Washington (Ofac), petizione in cui si chiede «di rinviare» appunto le sanzioni «per un minimo di 90 giorni». La domanda, ha precisato il governo serbo, è «sostenuta dalla Serbia e dall’Ungheria» e ha come obiettivo assicurare il «rilascio di licenze speciali che permettano a Nis di continuare a operare, mentre si cerca una soluzione accettabile» sul fronte della proprietà del gigante del gas e petrolio. Altrimenti si rischia di «minare le capacità di Nis di fornire ai cittadini serbi» il carburante, l’allarme del governo di Belgrado. Scenario che non sembra essere nell’interesse di nessuno. Lo conferma anche l’iniziativa dello stesso Janaf croato, il gestore dell’oleodotto che alimenta Nis e che, già a fine gennaio, si è rivolto all’Ofac per chiedere un rinvio delle sanzioni. Ora la palla è tutta nelle mani di Trump. 

 

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