Sarajevo surrealista e altri jugofantasmi della No Signal Area
Viaggio nella terra dove per cancellare il passato federativo i potentati locali inventano sempre nuove differenze etniche e linguistiche nel cuore d’Europa
Basta uscire dall’autostrada nei pressi di Spalato, inoltrandosi per pochi chilometri nello spoglio hinterland dalmata, per trovare uno spazio diverso, dove gli insediamenti si rarefanno fino a diventare una, due, tre case, sempre più distanti. E all’improvviso, un confine, ma i poliziotti parlano allo stesso modo in una cabina e nell’altra, lo si supera e non cambia nulla, nemmeno la bandiera ai lati delle strade, che è sempre quella con la scacchiera in mezzo: le case sono le stesse, forse più sparute, le poche automobili hanno targhe svizzere, austriache e tedesche, però il segnale del cellulare è andato, no roaming dati.
Nel suo romanzo il cui titolo in inglese è “No-Signal Area” (in originale “Područje bez signala”, edito in Italia da Bottega Errante con il nome “I prodigi della città di N.”, nella traduzione di Elvira Mujčić) l’autore croato Robert Perišić fa arrivare in un posto simile i suoi due protagonisti, Oleg e Nikola, imprenditori-faccendieri che hanno ricevuto da un colonnello africano molto simile a Gheddafi la commessa per la consegna di due turbine del tipo di quelle che si facevano solo nell’ex-Jugoslavia (mai nominata), e solo nella fabbrica ormai chiusa di una cittadina che, dopo il conflitto degli anni ’90, è piena di disoccupati ubriaconi. La cittadina, perduta tra monti e oblio, viene chiamata solo ‘N’, ma da vari indizi parrebbe trovarsi in Bosnia-Erzegovina, uno Stato che mette a dura prova la logica di chi prova a decifrarlo. “Ogni giorno che passo studiando la Bosnia, ne capisco di meno” diceva un diplomatico statunitense inviato in loco negli anni ’90, come riportato da Jože Pirjevec.
Ma non è solo la Bosnia a essere così spettrale. Gran parte di quel territorio che una volta si chiamava Jugoslavia, e che ora qualcuno definisce, per evitare rogne, “Balcani Occidentali”, è piagato dalla perdita di una o più generazioni, tanto che, se i politici dovessero decidere per nuove guerre, si dice, non troverebbero nessuno per combatterle.
La stessa Croazia, da undici anni nell’Unione Europea, è vuota in molte regioni, per un’emigrazione economica denunciata perfino nella hit di Baby Lasagna, “Rim Tim Tagi Dim”, arrivata seconda all’Eurovision 2024, canzone che non a caso ha sonorità teutoniche, così come nomi austriaci o tedeschi hanno i domicili di molti connazionali del cantante istriano. Non è nemmeno un caso che alle ultime presidenziali croate si sia recato alle urne solo il 37% degli aventi diritto al voto. Gli altri sentono, evidentemente, un diritto al vuoto.
Geopolitica delle birrette
Cosa sono diventati, chi sono, i nostri vicini dei Balcani? Sono quelli che ci fanno pagare cifre da capogiro sulla loro riviera, o gli squinternati zingari delle fantasie di Kusturica?
Siccome non interessa in questa sede il dibattito sul “chi ha cominciato cosa” o sul “a chi appartiene il tale territorio” che tanto affolla i thread sui social, né poi occorre parlare sempre di guerra, come fanno libri e documentari, ché se no sembra non abbiano fatto altro laggiù, credo che per rispondere alle domande sia meglio allargare lo sguardo, e tornare al romanzo: la forma artistica che, sin dai tempi di Andrić, è allo stesso tempo cannocchiale e microscopio.
Quando, in “No-Signal Area”, i due improbabili finanziatori Oleg e Nikola rimettono in sesto l’ingegnere locale, l’alcolizzato Sobotka, e riavviano la fabbrica di turbine dopo aver reclutato gli sfaccendati del luogo, tutto riparte nella città di N.: l’autogestione, come ai tempi del maresciallo Tito, l’allegra ribellione della produzione, le donne al Laguna Blu – il bar squallido a tema anni ’80 -, tornano amori e ricordi, arrivano perfino i giornalisti, le figlie emigrate scrivono di nuovo ai padri rimasti, ricevendone risposta, la macchina della società si rimette in moto a piena forza. Perfino il matto del paese, mezzo muto dai tempi della guerra, ritrova ragione e favella.
Ma anche questa è un’illusione, capisce qualche personaggio: il socialismo non è davvero tornato, questa non è e non sarà più la Jugoslavia, ma una periferia del libero mercato: i soldi e la fabbrica sono di un committente estero, finanziatori che lasciano fare finché c’è budget. Questa non è la Jugoslavia, è il fantasma della Jugoslavia e, al pari della Jugoslavia, non esiste, e il socialismo più che un fallimento è un falso ricordo.
Eppure, che una cosa chiamata “Jugoslavia” continui ad esistere, seppur nella sua forma spettrale, si evince, al contrario, dalla forza con cui i politici nazionali(sti) spingono per differenziarsi tra loro, disseminando bandiere, costruendo campanili, cupole e moschee, o marcando il territorio con l’economia nazionale. A volte, più che con confini, alfabeti o preghiere, il viaggiatore può situarsi etnicamente ordinando da bere; a seconda della cittadina o villaggio in cui si trova, gli porteranno una Nektar o una Jelen (e saprà di trovarsi tra serbi), una Sarajevsko o, più probabilmente un caffè turco (e sarà fra bosgnacchi), una Union o una Laško (si troverà in Slovenia), una Nikšićko (Montenegro) o le birre croate Pan, Karlovačko e Ožujsko.
Ma più delle divergenze spiccano le affinità, ed è difficile affermare che croato, serbo e bosniaco - così simili - siano qualcosa di diverso da varianti della stessa lingua, che forse non è il serbo-croato burocratico dei tempi di Tito, ma un idioma che varia più nei modi di dire che nella struttura.
Del fatto che le discordie siano spesso imposte e forzate dà dimostrazione un geniale sketch di un gruppo di autori satirici di cui si parlerà più avanti, trasmesso in tivù negli anni precedenti all’ultima guerra: un uomo entra in una drogheria e chiede del té (čaj, in quasi tutte le lingue dell’ex Jugoslavia) a una commessa di un altro gruppo etno-nazionale, la quale non capisce cosa sia questo dannato čaj e gli chiede di ripetere, ricorrendo infine a un dizionario dove, stupita, rinviene il significato di čaj nella propria lingua. Cioè: čaj. Nella stessa trasmissione, un finto accademico cerca di dimostrare come il serbo-croato siano in realtà sei lingue diverse, finendo per ripetere per sei volte “ja čitam” (“io leggo”), adducendo differenze morfologiche e fonetiche contraddette dalla pronuncia del lemma, che si ripete identica a sé stessa.
Allo stesso modo, guerre e nuovi confini non hanno limitato un mercato discografico che appare compatto a livello regionale: generi come il turbo-folk e popstar come la croata Severina sono ascoltati in tutta l’area, benché la popolarissima cantante, ipercattolica con all’attivo un paio di ex mariti ortodossi e un sex tape virale, abbia avuto negli ultimi tempi qualche noia alla frontiera tra Serbia e Croazia.
Più di una noia ha Oleg, uno dei due imprenditori del libro, a vendere la turbina a un colonnello Gheddafi ormai deposto, mentre il sodale Nikola, rimasto nella città di N., vede il sogno neo-socialista liquefarsi dopo l’arrivo di Ragan - un criminale di guerra, ormai boss della zona, del tutto contrario al ritorno del progresso e della speranza – che innesca una nuova spirale di violenza nella cittadina. Intanto, nel romanzo, cresce una polifonia di voci narranti, passato presente e futuro di quel posto sperduto, che nella traduzione Mujčić chiama efficacemente “culonia”: tutte vite che per esistere hanno bisogno del progetto della fabbrica, e che torneranno presto al rango di fantasmi.
Centravanti metaforici
È un mestiere nobile, quello del fantasma, ma un po' subdolo: privo di massa, non occupa spazio né spreca risorse; non vota, non grida in tivù, non uccide e non ruba, ma infesta la vita coprendola di una pellicola di nostalgia che non andrebbe né rimossa né ispessita.
Una nostalgia che si potrebbe affrontare con più attenzione, stendendo una mappa di ciò che si vuole conservare, delle minuzie, che spesso rivelano più di cattedrali o colossei. È quello che fa Miljenko Jergović, emigrato a Zagabria dalla capitale bosniaca nel 1992, nel suo libro “Sarajevo. Una mappa della città” (Keller Editore, 2024), dove ripopola le vie e le piazze in cui è nato e cresciuto con le vite delle persone che hanno dato il nome alle strade o linfa ai racconti popolari oppure, semplicemente, hanno significato qualcosa per l’autore, rendendo la carta più interessante del territorio. E così, con un semplice (e ancora limitato) elenco telefonico del 1941, lo scrittore rievoca un mondo sarajevese scomparso, dove avvocati ebrei (in maggioranza, nella professione), commercianti serbi, artigiani musulmani, medici cattolici e chissà chi altro tornano a respirare grazie alla salmodia dei loro nomi, restituiti all’immagine della città.
Tra i rievocati da Jergović, dai tempi più recenti, c’è un gruppo rock su cui vale la pena soffermarsi. Hanno un’attitudine punk, i “Zabranjeno Pušenje” (Vietato fumare), band dei proficui anni Ottanta.
Mentre si preparava a ospitare le Olimpiadi invernali del 1984, la città bosniaca sfornava gruppi popolari in tutta la regione, dai vecchi Bjelo Dugme (con Bregović al basso) alle novità Plavi Orkestar e Crvena Jabuka, alfieri di una scena alternativa che gravitava attorno al movimento dei New Primitives. Cos’era il Nuovo Primitivismo? Niente di più (e niente di meno) che una manciata di ventenni di classe media, - vagamente in polemica con quegli avanguardisti lubianesi un po' snob del Neue Slowenische Kunst (vedi alla voce “Laibach”) -, nativi di una città variegata ma non grande, chiusa tra le montagne, che, in un clima di socialismo un po' spento, le sparavano grosse per guadagnarsi un posto al sole sulla scena artistica jugoslava, enfatizzando peculiarità locali con talento, sprezzatura dalle tinte punk e una carica dada e surrealista.
Top lista nadrealista (surrealista) è il nome della trasmissione satirica da cui sono tratti gli sketch linguistici del paragrafo precedente, show partito con pochi mezzi ma che diventerà un cult jugoslavo degli anni Ottanta, nonché l’espressione lampante dei Nuovi Primitivi, tra pantaloni a zampa e piglio da zotici. Memorabile la puntata dove due gelatai svedesi lavorano solerti agli ordini di un padroncino bosniaco, dopo essere fuggiti dalla disoccupazione e dall’instabilità politica del loro misero e poco democratico Paese per cercare fortuna nella più prospera Sarajevo.
Volto popolare e mente dei nadrealisti, come vengono ricordati, è il dottor Nele Karajlić, nome d’arte di Nenad Janković, che all’attività satirica associa la carriera di frontman e compositore proprio dei “Zabranjeno Pušenje”, assieme al chitarrista Sejo Sexon (nome d’arte di Davor Sučić).
Cosa ha a che fare questa storia di artisti irriverenti con la nostra di fantasmi e nostalgia? Ce lo ricorda Jergović: mentre esplora con la memoria il quartiere di Koševo, dove i due frontman della band sono nati, ci dice che in quel quartiere c’è lo stadio, e che quell’impianto è intitolato ad Asim Ferhatović, detto “Hase”, cannoniere del FK Sarajevo con 98 gol tra il 1951 e il 1967, anno in cui lasciò il calcio e un grande vuoto nei tifosi.
A lui, a Ferhatović, i “Zabranjeno Pušenje” hanno dedicato una canzone, Nedjelja kad je otiš’o Hase (“La domenica in cui Hase se n’è andato”), un pezzo del 1987 che ricorda il beniamino calcistico locale e i bei tempi che furono, un po' come farà Cremonini con Baggio che non gioca più; ma attenzione, ci avverte lo scrittore, parecchi elementi suggeriscono un’ulteriore significato, un fantasma più potente evocato dal testo: innanzitutto, la partita cantata nella canzone, cioè FK Sarajevo contro la squadra di Osijek, non si giocò affatto il giorno in cui nel ’67 Hase calcò il campo per l’ultima volta, ma tredici anni più tardi, una domenica del 1980 in cui a morire fu proprio il Maresciallo Tito. E poi, quel coro finale, che rilascia il climax del ritornello, una folla di tifosi che grida “Jugoslavija, Jugoslavija…”, è nostalgia pura, esalta e commuove anche chi non ha mai giocato né al calcio né al socialismo.
Anche se nel 1987 la Jugoslavia c’è ancora, quel coro è un coro di fantasmi, spettri forse un po' inquietanti, per noi consapevoli di quello che succederà di lì a cinque anni.
Diaspora rock
Nel 1992, con l’assedio nell’aria, non parte solo Jergović, diretto a Zagabria, ma anche Nele Karajlić, etnicamente serbo, destinazione Belgrado, lasciando a Sarajevo l’ex sodale Sejo Sexon, mezzo croato, ma non l’amico Emir Kusturica, che ha optato per Belgrado, né il rodato musicista Goran Bregović (che vivrà tra Parigi e la capitale serba). Tra chi resta, invece, in una città assediata per quasi quattro anni, muoiono in dodicimila, così come scompare per sempre quel luogo quasi incredibile in cui un gruppo di autori e musicisti si affibbiava pseudonimi che neutralizzavano l’appartenenza etnica, un collettivo di irriverenti che, senza smettere di professare il socialismo, si permetteva, come fece Nele durante un concerto a Rijeka, di commentare sul palco: “Crk’o Maršal!" (“Il Marshall/Maresciallo ha gracchiato”), al guasto di un amplificatore.
Nele riemerge dalla guerra senza più Sejo e nadrealisti, ma con una manciata di musicisti con cui formerà un collettivo belgradese il quale, usando come cavallo di Troia il nome del talentuoso regista (ma non altrettanto musicista) che ne fa parte, assumerà la ragione sociale di “Emir Kusturica & The No Smoking Orchestra”, abbandonando il vecchio stile rock’n’roll per una etno-music zingara tanto arrembante quanto di dubbia autenticità. Ma il successo, soprattutto in Italia e all’estero, è garantito, sulla scia di “Gatto nero gatto bianco” e con il traino del documentario “Super 8 Stories”.
Sejo invece resta in una Sarajevo che in un secolo ha perso la sua importante comunità ebraica (con i nazi), gran parte di quella serba (con gli ustascia e le conseguenze del fallito assedio cetnico), di quella croata (dal secondo dopoguerra in poi) e perfino una buona fetta dell’eredità ottomana, l’islam tollerante e cosmopolita davanti al quale un po' stridono i veli e certe ottusità di quella che oggi è una cittadina turca di provincia.
Sarajevo non è poi così differente dalla città di N. con le turbine inceppate. I Nuovi Primitivi sono i suoi fantasmi.
Un piccolo pantheon
Passiamo in rassegna il piccolo pantheon di questo pezzo: il romanzo di Perišić, i nadrealisti o Nuovi Primitivi, il centravanti metaforico Asim Ferhatović, detto “Hase”, sotto le cui spoglie si cela il Maršal (Tito, non l’amplificatore), gli archivi mentali dello scrittore Jergović, le birre nazionali, che nonostante i diversi nomi e colori sanno sempre della stessa pivo, le popstar Baby Lasagna e Severina, e aggiungetene voi di altri, che siano tennisti, baskettari, rapper o violiniste, grappe o polpette oblunghe di carne speziata, foto sbiadite di Makarska o minareti sotto la neve, fisarmoniche o fiati. Non sono solo gli oggetti attorno a cui si aggrega la nostalgia, ma una federazione di simboli che incuriosisce, dà conto di una varietà con tratti unici, come quando ci si diverte a notare le differenze tra un gruppo di fratelli. Poi succede che uno dei fratelli diventa un fantasma, poi due, poi un altro ancora, ma le somiglianze restano.
Cosa accade alle turbine invendute non lo dico, ma il finale del romanzo di Perišić è geniale.
Cosa succede alla città di N., invece lo sappiamo. È quello che capita a quei posti di cui il mondo si ricorda se hanno una spiaggia e l’acqua azzurra, o se vi è nato un calciatore molto forte, come quel pastorello dell’entroterra zaratino che a Madrid è diventato il miglior centrocampista del mondo, lasciando un alter ego spettrale a portare avanti le pecore sulle montagne del Velebit, nel villaggio dove tutti portano lo stesso cognome, che peraltro è il nome dello stesso villaggio: Modrići.
Forse la turbina non girerà più, da quelle parti.
Non è mai finita
La Jugoslavia, dicono, è finita per tante ragioni. C’è chi sostiene che alla Germania appena riunita facesse comodo avere degli staterelli satellite, c’è chi dà la colpa alla da sempre riottosa Slovenia (una Padania balcanica con ambizioni da Mitteleuropa), chi al nazionalvittimismo serbo, chi a quei cattofasci dei croati, chi allo stesso Tito che, in fondo, concedendo costituzione dopo costituzione sempre più autonomia alle repubbliche, si era scavato la fossa da solo. Agli storici l’ardua sentenza: a noi basti dire che gli Stati hanno un inizio e una fine, e di solito non durano molto.
Facciamo quindi un ultimo sforzo: usciti dal romanzo, usciamo anche dalla storia recente.
Se la nostalgia è elaborazione del lutto in seguito a una cesura della biografia, come può essere l’esilio per motivi politici o economici, si capisce perché un ex jugoslavo ha buon diritto a soffrirne. Legato più di molti altri al connubio comunità-terra, un abitante dei Balcani, anche se emigrato a Vienna, non taglierà mai il cordone ombelicale con la casa di famiglia: ci tornerà a ogni festa comandata. Ma davvero, a causa del trauma, non può che inseguire miti nazionali? Oppure condannarsi a piangere di fronte all’effigie del Maresciallo, appesa in camera accanto alle icone?
Il quesito diventa universale. Non esistono solo le ostalgie: anche da questa parte dell’ex cortina di ferro indugiamo a costruire identità sul passato, o peggio, sull’esclusione di chi con noi questo passato non lo condivide.
Ma se allarghiamo lo sguardo, volando sopra l’Europa e i Balcani nei millenni, vediamo passaggi di mano e di bandiera sulle terre che pensavamo da sempre nostrissime, nozze miste e incroci a cui si formano piccole nuove identità, migrazioni e cambiamenti favoriti da eserciti tanto minuscoli di fronte alle vastità del tempo. E poi la vita riparte a ogni stop, e la cultura di una comunità ci arriva davanti agli occhi o alla bocca in forme talmente spurie che è impossibile decidere se quel burek, ćevap o baklava è turco oppure slavo, ma nel dubbio ci piace.
Perché il tempo non è una linea che si degrada e corrode a partire da un’età dell’oro, né un continuo progresso verso magnifiche sorti, ma un ciclo di rinnovati ritorni, dove persino le voci dei fantasmi portano nuovi significati.
Non ci può essere nostalgia in un cerchio: anche se può sembrare immobile, la turbina continua a girare.
L’autore
Enrico Cattaruzza è nato a Trieste nel 1988. Autore di due romanzi editi da Scatole Parlanti (“Adriatico” e “Quanti amori”), collabora con la redazione della rivista “Charta Sporca” ed è presidente e co-fondatore dell’APS BABAU. Suoi articoli e racconti sono stati pubblicati in varie riviste online e cartacee. Lavora per la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia.
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