Viaggio tra i serbi nel nord del Kosovo: «Ormai la nostra terra è presa dagli albanesi. Speriamo in Trump»
I serbi del Kosovo: c’è chi soffre la politica del premier Kurti che impone la sovranità di Pristina e c’è chi si augura una svolta dagli Usa
Era uno degli ultimi baluardi della “serbitudine” in Kosovo, pronta a insorgere con proteste e barricate, quando percepiva che la propria sopravvivenza era a rischio. Oggi, invece, appare come sospesa in un limbo, dove regnano pessimismo, disillusione, rabbia soffocata, ma anche qualche speranza che le cose possano cambiare. Magari grazie al nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump.
ll nord del Kosovo a maggioranza serba
È il nord del Kosovo a un quarto di secolo dalla fine della guerra, area a maggioranza serba nel Kosovo indipendente, 40 - 50 mila serbi che, in particolare negli ultimi mesi, stanno vivendo il periodo più doloroso e complicato della loro storia recente.
Periodo che coincide con le strategie del governo di Albin Kurti, che ha deciso di imporre la piena sovranità di Pristina, o quasi, anche sul nord ribelle. E ci sta riuscendo.
Se si arriva da Belgrado, si attraversa il valico di Jarinje, epicentro di tante proteste, spesso violente. Da lì, la statale verso Mitrovica è un nastro d’asfalto pieno di curve.
La guerra delle targhe
Le auto che circolano, auto di serbi con in tasca ormai solo patenti del Kosovo, hanno ormai tutte le targhe kosovare ufficiali, dopo che Kurti ha imposto che quelle serbe, le “Km” (Kosovska Mitrovica) fossero messe fuorilegge. Sulla strada i cartelli sono bilingui, ma prima in albanese e poi in serbo. Non ci sono più pompe di benzina “Nis”, il gigante serbo degli idrocarburi, ma tanta polizia kosovara con blindati, agenti solo albanesi dopo l’uscita dei serbi dalle istituzioni locali. E non ci sono neppure più i tricolori serbi che sventolavano a ogni pennone e palo della luce, strappati uno a uno.
Mitrovica
Si arriva poi a Mitrovica nord, roccaforte serba divisa dal fiume Ibar dalla parte meridionale, quella albanese. Nord che sta venendo “invaso” da negozi di proprietà albanese, dalle filiali delle Poste e Kosoves – dopo la chiusura forzata di quelle serbe – ai discount «shume ka 1 euro», tutto a un euro. Persino il corso che porta verso il ponte della discordia, ancora chiuso al traffico e protetto dalle camionette dei Carabinieri italiani, è in fase di “occupazione”, qualcosa di inconcepibile fino a qualche anno fa.
Il caffè Dolce Vita, un tempo quartier generale dei “guardiani del ponte”, serbi pronti a tutto per impedire infiltrazioni albanesi a nord, è ora in mano alla maggioranza. E a un altro caffè sulla via del passeggio si vedono solo giovani albanesi vestiti di nero. «Arrivano al mattino presto, stanno lì seduti tutto il giorno come fossero pagati da qualcuno per farsi vedere, forse per fare la guardia o intimidirci», dice un passante serbo. Ma il quadro dell’assimilazione è ben più ampio.
Nelle drogherie mancano moltissimi prodotti “made in Serbia”, dopo l’embargo deciso da Pristina e durato più di un anno, da poco allentato. Nelle banche si possono prelevare solo euro, valuta ufficiale in Kosovo, dopo che il dinaro è stato dichiarato off limits, mettendo molte famiglie e pensionati, che ricevono stipendi, sussidi e pensioni da Belgrado, in difficoltà.
Le istituzioni pubbliche serbe? Dai comuni alle anagrafi ora sono in mano alle autorità kosovare, sulle facciate, invece della bandiera serba, cartelli con su scritto “Repubblica del Kosovo”.
Le voci
«A noi va bene anche integrarci in Kosovo, ma questa occupazione no», commenta un giovane di Mitrovica. «Dimmi tu dove siamo, in Serbia o in Kosovo? Questo ormai è il loro Stato», ammette sconsolata Milanka, una pensionata, additando il sud, verso Pristina. Mentre dietro di lei fanno bella mostra non più i murales con l’effigie di Putin, ma poster e cartelli con l’immagine di Trump e le bandiere Usa e serba – e la scritta «buona vittoria, presidente» – segnale che alcuni serbi sperano che Donald sia più disponibile verso Belgrado. E magari rievochi l’idea dello scambio di territori, nord del Kosovo a Belgrado, Presevo e Bujanovac a Pristina, per chiudere una buona volta la questione Kosovo.
Nel frattempo, tutto tace e la sovranità del Kosovo avanza. «Visto che cambiamenti? Chi l’avrebbe immaginato», spiega Bata, un signore di mezza età che vive fuori Mitrovica nord e ancora parcheggia una delle poche auto targate Km in cortile, per «provocare la polizia». Nel frattempo, tanti serbi hanno deciso di abbandonare il Kosovo. E «molti negozi e locali hanno chiuso dopo il divieto di ingresso alle merci serbe, tanti hanno venduto casa, siamo sempre di meno», racconta un altro ragazzo a Zvecan, Jovan, vicino alla miniera di Trepca, in disarmo dal 1999, e alla ferrovia, senza più treni. «No merci, no passeggeri, niente», racconta Ljubisa, un addetto alla stazione di Zvecan. Poi indica verso Trepca, un tempo locomotiva dello sviluppo jugoslavo. «Triste, è tutto fermo», chiosa. Come il nord del Kosovo, in un limbo che appare senza uscita. —
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