Ire leghiste e silenzi meloniani sull’esodo dal Carroccio a Fratelli d’Italia, fenomeno non solo veneto

Gli addii di esponenti anche di spicco al partito di Salvini si susseguono già da molto tempo e in tutta Italia, con accelerazioni nei territori più vicini ad appuntamenti elettorali: una mappa

Carlo BertiniCarlo Bertini

L’esodo dal Carroccio verso le più sicure spiagge dei Fratelli d’Italia è lento ma costante da un paio d’anni, provoca malumori e risentimenti, viene tenuto basso per non dare in pasto ai media un conflitto sotterraneo tra alleati. I big della Lega preferiscono glissare, quelli di FdI sorridono sotto i baffi, senza gloriarsene in pubblico.

Perché il fenomeno ormai (dopo il governo Draghi) coinvolge molte regioni italiane, da Nord a Sud: ma nelle terre d’elezione come è il Veneto per la Lega, i tuffi di quadri e consiglieri regionali leghisti tra le braccia degli arrembanti Fratelli, fanno più male. È il caso degli ultimi due abbandoni, quelli di Silvia Rizzotto e Marco Andreoli, proprio a tre giorni dalla sentenza che impedirà a Luca Zaia di correre per la terza volta, coincidenza che non è sfuggita al governatore, anche se da via Bellerio dicono che la separazione era già in corso da tempo.

Il Doge si è infuriato, sotto di lui l’hanno presa con più distacco, perché sanno che dei 40 consiglieri regionali eletti col cappotto del 2019, al prossimo giro la Lega ne potrà riportare sul Canal Grande a Palazzo Ferro Fini circa un terzo. «Ci sta che qualcuno faccia i suoi conti», ammettono senza farsi illusioni dalla tolda di comando del partito.

Del resto, il fenomeno non è nuovo, ma in tempi di volatilità estrema dei consensi (si pensi ai 5 stelle che li hanno dimezzati dal 2018, senza dire della Lega passata dal 33 all’8%) è chiaro che in molti temano di non essere rieletti e fuggano verso lidi meno battuti dal vento. Ma il loro arrivo spesso indispettisce i padroni di casa, sottobanco si vocifera di chat bollenti tra gli storici dirigenti di Meloni contro i nuovi arrivati con cui magari si sono scontrati fino al giorno prima: e che ora attentano alle loro posizioni in lista.

Sì, perché si sta parlando di «raccoglitori di voti», di quei formidabili croupier di consensi elettorali che rastrellano preferenze nei territori, in grado di trasmigrare da una forza all’altra dello stesso schieramento e spesso anche di schieramenti lontani, come avvenuto in Puglia e più riprese con la gestione Emiliano.

Ed è proprio la Puglia altra terra di conquista, pure per gli azzurri, come per Davide Bellomo, passato a Forza Italia in dissenso dai legami con Afd e con Orban. Quindi contro una deriva troppo di destra della Lega.

Che però ingrossa le fila dei Fratelli d’Italia, divenuti tazza di miele per le api, tanti sono i cambi di casacca in tutte le città - Bari, Taranto, Lecce - di pezzi grossi, fregiati di cariche istituzionali, verso il partito della premier. Così come in Toscana, Calabria e soprattutto in Sicilia, dove gli esempi si sprecano, dalla capogruppo all’Assemblea regionale siciliana, Marianna Caronia, in dissenso con l’Autonomia, fino al coordinatore della Lega a Siracusa Enzo Vinciullo, che se ne è andato indicando con perfidia il flop della piazza pro-Salvini (quando vi fu l’udienza Open Arms a Palermo) come dimostrazione di perdita di appeal del Carroccio nell’isola. Che ha nominato da tempo un commissario regionale, Nino Germanà, per riportare l’ordine.

Ma senza indulgere in moralismi, si potrebbe dire che «è la politica, bellezza». È sempre stato così nella storia e non vuol dire che i trasformisti siano sempre figure censurabili. Winston Churchill, bocciato per ben due volte a scuola prima di diventare lo statista più importante del Novecento, saltò anche lui da una trincea all’altra: eletto col Partito conservatore, colui che venne ribattezzato The British bulldog per aver promesso a Hitler «non ci arrenderemo mai», tre anni dopo il suo ingresso in Parlamento lasciò la famiglia conservatrice e passò all’opposizione con i liberali, per poi rifare il salto all’indietro e tornare dai conservatori per i successivi vent’anni. Anche il grande Lord insomma non si fece scrupolo e «attraversò l’aula», come usano dire gli inglesi con espressione non troppo lusinghiera. 

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