Autonomia, il voto al referendum spacca l’Italia e i partiti: esulta la Lega, non Meloni e Schlein

La Consulta non smentirà la Cassazione: alle urne fra sei mesi. Salvini evita lo stallo ed è soddisfatto, FdI e Pd rischiano con motivazioni opposte. L’imbarazzo di Tajani

Carlo Bertini
Il palazzo sede della Corte di Cassazione
Il palazzo sede della Corte di Cassazione

Per certi versi, assomiglia a un Giudizio Universale quello che la Corte di Cassazione ha pronunciato sul referendum abrogativo della legge per l’Autonomia regionale differenziata: intanto perché il profilo della giuria fa impressione, per autorevolezza e solennità, simile a quello della Corte Costituzionale.

L’Ufficio centrale del referendum alla Cassazione è un organismo corposo, formato da trentatrè giudici, i più navigati di tutte le sezioni, presieduto dal consigliere più anziano. Tutti costoro sanno bene che dal loro pronunciamento dipendono le sorti di molte partite e anche di molti leader, a cominciare da Matteo Salvini, per continuare con Giorgia Meloni ed Elly Schlein. E che la loro è una decisione con forti risvolti politici.

Gli “ermellini” di piazza Cavour hanno detto la loro anche alla luce della sentenza con cui la Consulta il 12 novembre ha smontato pezzo per pezzo il testo Calderoli su punti dirimenti, come il trasferimento di funzioni - e non di materie - alle Regioni, la potestà del Parlamento nel fissare i livelli minimi di servizi garantiti a tutti (i Lep) e via dicendo. Malgrado ciò, la Cassazione ha ritenuto che il quesito referendario per abrogare l’intera legge oggi rimane valido e non superato.

L’ultima parola spetterà alla Consulta, che il 20 gennaio dovrà dare l’ultimo giudizio di legittimità costituzionale sulla norma Calderoli. Ma stando a quanto prevedono ai piani alti, dopo che la Cassazione ha detto «prego, votate pure», la Consulta non darà un giudizio difforme. Quindi ad aprile si voterà per un referendum molto divisivo, ma accolto bene (solo di facciata però) da entrambi gli schieramenti.

In realtà, la Lega e i suoi big, da Salvini a Calderoli, dopo aver osteggiato per mesi le ragioni del referendum, ora festeggiano: convinti che la patente di legittimità data alla legge sull’Autonomia dalla Cassazione in qualche modo stemperi le bordate della Consulta. E che sarà arduo per i promotori del referendum convincere la gente ad andare a votare: dunque raggiungere il quorum è una chimera. In poche parole, i leghisti ora sono più sicuri di vincere la partita e di rafforzare così le ragioni dell’Autonomia.

La seconda ragione di giubilo è che lo scontro tra i poli sul referendum terrà alta la tensione sull’Autonomia regionale, riportando la bandiera al centro dell’agenda politica. Viceversa, sarebbe finita nelle sabbie mobili del Parlamento, visto tutto quel che succede nel mondo (tra guerre e rovesci di regimi) nonché in Italia, dove a nessuno importa granché della fine che farà la riforma che (dopo la sentenza della Consulta) non farà più trasferire energia, istruzione e trasporti alle Regioni del Nord.

Ma la paura di perdere fa novanta, specie in Forza Italia, che verrebbe accusata di sabotaggio dagli alleati. Il governatore della Calabria Roberto Occhiuto ha già messo le mani avanti, facendo sapere che al Sud il bacino di elettori moderati contrari alla legge sarà difficile da tenere a bada. E quindi gli azzurri puntano a ridurre i danni, spingendo Fdi e Lega a cambiare presto le norme in Parlamento come indicato dalla Corte.

Calderoli, malgrado l’appello di Elly Schlein a fermare le macchine, vuole procedere in fretta con la devoluzione delle materie non soggette ai Lep (come la Protezione civile) alle Regioni che ne hanno fatto richiesta. Quindi si prevedono polemiche a iosa e uno scontro tra le Regioni a favore e quelle contro.

Dietro le quinte, le due figure che più temono questo referendum, sono di sicuro la premier Meloni e la leader dell’opposizione Schlein. La prima perché ha giustamente paura che, se vincessero i «sì» all’abrogazione, buttando giù la bandiera del Carroccio, il suo governo entrerebbe in crisi. La seconda, viceversa, sa che se perdesse la sfida popolare nelle urne lanciata contro l’Autonomia, la sua leadership subirebbe un colpo durissimo. E inoltre, al di là delle grida di battaglia, i dem non sono felici di portarsi sulle spalle il peso di un referendum che spaccherà l’Italia. «Su un tema come questo dobbiamo andare a un referendum lancinante?», si lascia scappare il neo-presidente dell’Emilia Romagna, Michele De Pascale.

In conclusione, Salvini è contento di stare ancora sugli scudi con la bandiera dell’Autonomia per altri sei mesi, Meloni trema insieme a Schlein, Antonio Tajani è in imbarazzo perché dovrà far finta di appoggiare la linea di maggioranza del «non votate, andate al mare», sapendo però che al Sud i suoi elettori andranno alle urne per dire «no» all’Autonomia. E Giuseppe Conte gongola: «Facciamo pronunciare gli italiani» dice, sapendo che trarrà profitto da qualunque esito avrà questa partita: se i sì all’abrogazione della riforma saranno una valanga e il quorum sarà superato, la vittoria sarà anche sua; viceversa, avrà perso solo il Pd. Ed Elly Schlein sarà - con suo sommo gaudio - molto indebolita.

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