Guerra alla magistratura, così il governo nasconde i mal di pancia della maggioranza
L’avviso di garanzia alla premier e ai ministri Nordio e Piantedosi sul rimpatrio del terrorista libico ha paralizzato Montecitorio e Palazzo Madama. Rampelli (FdI): «Nessuno dei miei esposti ha mai provocato avvisi di garanzia: atti voluti più che dovuti»
Le Camere paralizzate, per una settimana le aule di Montecitorio e Palazzo Madama chiuse come nei tempi più bui. Tutti i social che eruttano invettive e minacce. Un clima di veleni che neanche ai tempi di Caligola. E ancora: Radio-Parlamento che manda in onda dai corridoi una fiera di sospetti, come quello che il recente boom di sbarchi sia stato pilotato ad arte dai libici per far liberare il loro uomo arrestato in Italia.
Ma dietro l’onda lunga dello tsunami che ha investito il governo italiano, emerge la domanda sul perché la premier abbia deciso di drammatizzare così la vicenda: le opposizioni, per bocca dell’ex guardasigilli Andrea Orlando, sostengono la tesi che la premier preferisca parlare di complotto della magistratura piuttosto che del libico rimpatriato.
In sostanza: l’avviso di garanzia a mezzo governo viene sfruttato per aizzare uno scontro con i magistrati, tale da distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dal merito della questione: ovvero dalla scelta controversa di rimpatriare un terrorista accusato di crimini contro l’umanità.
Tutte le domande cui dovevano rispondere in Parlamento i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi - sulla dinamica di un arresto e di una liberazione immediata, malgrado le richieste avanzate della Corte penale internazionale - restano inevase.
Il governo può prendere tempo.
Se a questo si somma la circostanza che le tensioni sul caso Daniela Santanché, sul terzo mandato per i governatori regionali e sull’Autonomia differenziata vengono spazzate via dalla guerra ai magistrati, allora potrebbe davvero sorgere il dubbio che, in fin dei conti, la procura abbia fatto un favore alla premier.
Del resto, quale migliore occasione per convincere l’opinione pubblica che sia venuta l’ora di intaccare i poteri di questa Casta, con la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti? Specie in vista di un voto popolare in un referendum?
Ecco i sospetti delle opposizioni, rintuzzati così dalla maggioranza: come dice Fabio Rampelli di Fdi, «nessuno dei miei esposti/denuncia ha avuto l’opportunità di trasformarsi in informazione di garanzia, la procura non ha mai aperto inchieste. In realtà si tratta di atti voluti più che dovuti».
Quindi, nessuna dietrologia, i giudici stanno appropriandosi del ruolo delle opposizioni.
Un refrain già sentito ai tempi del Cavaliere, che si ripropone oggi, con declinazione del tutto simile.
Dal partito della premier rigettano le accuse, definendo «l’iscrizione nel registro degli indagati del presidente del Consiglio, di due ministri e del sottosegretario alla Presidenza una scelta esorbitante ed eclatante, che giunge proprio a poche ore dalla clamorosa protesta di alcuni giudici contro la riforma della giustizia».
Proteste culminate con lo sventolìo della Costituzione alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, sotto il naso del Guardasigilli. Ma portare lo scontro su questo piano non mette al riparo il governo dallo sdegno popolare che può sollevare la liberazione di un personaggio accusato, tra mille altre nefandezze, di torture sui bambini. L’impressione è che la portata di questa vicenda sia sfuggita di mano al governo, che ora è ben consapevole dei rischi che può arrecare.
Dietro la compattezza ostentata da premier e ministri, che nominano Giulia Bongiorno (forte del successo nell’archiviazione delle accuse a Matteo Salvini sul caso Open Arms) come unico avvocato difensore, si percepisce l’inquietudine di chi si chiude a riccio per attutire i colpi. Derivanti da un danno di immagine evidente per un caso spinoso, che si sarebbe preferito far dimenticare in fretta.
Certo, va notato che quando si tratta di sparare contro i giudici, come d’incanto la maggioranza di centrodestra si compatta in un sol uomo, in un monolitico fronte comune. Salvini, Tajani, Meloni si ritrovano subito fianco a fianco nella stessa trincea, malgrado tutto.
Malgrado siano divisi sulle riforme chiave, così come sul terzo mandato ai governatori (vedi il caso Luca Zaia), per non dire dello scontro sulle candidature alle regionali (con il Veneto in testa), i tre leader si chiudono a falange.
Di sicuro, un altro risvolto positivo per la maggioranza è che la tesi di una magistratura ostile al governo aiuta a blindare per adesso anche la posizione della ministra Santanché, evitando l’imbarazzo di doverla accompagnare alla porta per forza a causa dei suoi guai giudiziari, malgrado le sue resistenze. Riuscendo magari a coprire così anche gli interrogativi sul perché la ministra possa sfoggiare tanta sicumera. Per qualche giorno ogni polemica o sospetto su questo versante sarà messo da parte.
Comunque vada, d’ora in avanti la riforma della Giustizia procederà ancora più spedita. Gridare al complotto aiuta e spinge il cammino di una rivoluzione sgradita alle toghe. —
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