La conferma di Salvini non nasconde le crepe interne alla Lega
In politica i soli numeri che contano sono quelli delle urne elettorali, non dei gazebo o delle piazze. Le incognite del Carroccio, dal Veneto al Friuli Venezia Giulia

La Lega secondo Matteo. Dal congresso precotto di Firenze, servito ai delegati con menu e ingredienti fissi stabiliti in anticipo, esce un partito confezionato a uso e consumo di un segretario che, oltre a riscriverne le regole, si è allungato di un anno il mandato nell’intento di arrivare alla fine del decennio.
Che ci riesca, è tutto da dimostrare: specie alla luce di consensi che, tra sondaggi e voti effettivi, lo inchiodano da anni a una risicata percentuale a cifra singola. E con un ruolo nella scena politica che gli sta stretto, al punto da rivendicare per se stesso un posto prima da ministro degli Interni, poi degli Esteri, adesso di nuovo agli Interni, domani chissà. Ma intanto, provare a fare quello dei Trasporti, che fosse sbagliato?
L’unanimità di facciata imposta a Firenze non basta a nascondere le crepe interne: a cominciare dal Veneto, condannato a vivere nella penombra del movimento. Una sola volta i suoi leghisti sono stati davvero «paròni a casa loro», come ancor oggi inutilmente rivendicano: al tempo della fondazione, quando Bossi era ancora un signor nessuno; poi si è preso la Lega annettendosi la componente veneta, aiutato in questo dalla fallimentare e dispotica gestione Rocchetta.
Oggi, l’era Zaia è al tramonto: il terzo mandato non ci sarà. D’altra parte, la sua anzianità di servizio l’ha maturata largamente: sono passati 27 anni da quando venne eletto a capo della Provincia di Treviso; e da allora ha sempre fatto il presidente. Disoccupato comunque non resterà.
Quanto alla Lega-Liga, in politica i soli numeri che contano sono quelli delle urne elettorali, non dei gazebo o delle piazze. E le cifre dicono che alle politiche 2022 il partito ha raccolto meno di metà dei voti di Fratelli d’Italia, e alle europee 2024 addirittura un terzo. Tutto può capitare, certo. Ma se alla fine i leghisti veneti dovessero ottenere comunque la presidenza della Regione, non sarà per loro merito, ma solo perché a Roma, non a Venezia, si deciderà altrimenti: esattamente come capitò a Zaia nel 2015, quando fu il tavolo nazionale dei partiti, e non la base, a decidere che il Veneto dovesse andare alla Lega e non a Forza Italia: che pure rivendicava il quarto mandato per il presidente uscente Galan.
Diverso è lo scenario per il Friuli Venezia Giulia, dove si voterà tra due anni; e dove il presidente uscente Fedriga si sta muovendo con ben altra efficacia, specie in prospettiva futura. Nessun attacco al lider maximo, per carità; ma anche netti distinguo, come quelli proposti a Firenze: «Non sono il ventriloquo di Salvini», e «Fermarsi agli slogan porta a un impoverimento della politica». Tutt’altro stile rispetto a uno Zaia che in Lega si ispira allo stile don Abbondio; con punte di funambolismo verbale, tipo la stiracchiata distinzione tra «leali» e «fedeli».
Non è detto con questo che sia o sarà Fedriga il dopo Salvini. Ma non è neppure scontato che Re Matteo continui a star seduto sul suo trono fino a che lo vorrà. Fallimentare si sta rivelando il tentativo di dare alla Lega un connotato nazionale, dopo aver cestinato il Nord già nel 2017 cambiando pure la ragione sociale («Lega per Salvini premier»). A differenza di quanto sosteneva Plinio il giovane, «i voti si contano e non si pesano», nell’odierna Roma si contano e si pesano. E lo sa per primo proprio Salvini, che ha ingaggiato un corpo estraneo quale l’estroverso generale Vannacci come donatore di sangue elettorale per contrastare l’anemia di consensi; regalandogli pure la tessera della Lega a dispetto di tanti leghisti veri. Tutto il resto è noia.
Riproduzione riservata © il Nord Est