Nella crisi in Siria l’Europa è relegata in panchina
L’Ue attende gli eventi, le manca la politica estera comune per contare nel Mediterraneo orientale. Dal vertice del 18 e 19 dicembre si deve uscire con una linea concordata e senza sbavature
Parlano di Siria, ma pensano alla Russia, e non fa differenza che Mosca abbia preso le distanze da Assad dopo averlo salvato per «ragioni umanitarie».
Il futuro di Damasco è una partita che si decide su più tavoli, in uno scenario dove torna in auge la regola dei frenemy, il gioco articolato degli “amici-nemici” a seconda dei punti di vista in cui l’Europa è da sempre inadeguata. La parola del giorno a Bruxelles è “pragmatismo”, così non sorprende che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, parli di «un cambiamento storico nella regione che offre opportunità, pur non essendo privo di rischi». È un modo per prendere tempo.
L’Ue attende gli eventi perché non ha la politica estera comune che serve per contare nel Mediterraneo orientale e non solo. I passi cruciali attendiamoceli dalle singole capitali che indeboliranno il potenziale congiunto e comprometteranno le possibilità di un successo europeo. Saranno i soliti noti a condurre le danze: gli Usa, Israele, la spossata Russia, la coriacea Turchia, i ricchi arabi. E il patto a dodici stelle resterà un riferimento rilevante, nondimeno incapace di correggere l’incerto svolgersi della Storia.
Il dato positivo è che Assad, l’uomo dei massacri del 2011 che ha provocato 500 mila morti e sei milioni di profughi, è scappato. L’alto rappresentate per gli Esteri, l’estone Kaja Kallas, legge nell’evento «il segnale della debolezza di chi lo sosteneva, Russia e Iran». Un altro baltico della Commissione, il lituano Kubilius che ha il portafoglio della Sicurezza, reagisce chiedendo ai Ventisette di decuplicare il bilancio della Difesa. Entrambi pensano che la principale minaccia per l’Europa sia lo zar Vladimir, prospettiva reale, ma non unica, poiché la stagione è segnata da policrisi. Nessuno può sperare di avere un solo nemico. La fuga del tiranno Bashar non risolve di per sé alcun problema.
L’Europa dovrebbe trovare una voce unica, cosa che difficilmente succederà, persino con Francia e Germania in modalità “anatre zoppe”. Il presidente Macron cerca di fare la voce grossa per fingere di avere un ruolo, i tedeschi (come gli austriaci e gli extracomunitari inglesi, nonché in serata anche l’Italia) annunciano di aver congelato le domande di asilo dai profughi siriani, messaggio forte quanto generico. È il festival dei solisti che zavorra l’orchestra. Perché dal vertice Ue del 18-19 dicembre sarebbe bene vedere uscire una linea concordata e senza sbavature, non le consuete parole tappabuchi.
Il contesto richiede all’Europa pazienza, prudenza e lungimiranza per spingere in quattro direzioni: il dialogo coi turchi, vero ago della bilancia sullo scacchiere siriano; gli incentivi mirati a sostegno della moderazione del trionfatore Al-Joulani, con la cautela richiesta da un ex jihadista; un piano di nuovi aiuti umanitari d’urgenza; un’azione a sostegno di un processo di pacificazione in sede Onu.
Il Medio Oriente non ha bisogno di altri incendi, mentre una ritrovata stabilità in Siria potrebbe limitare il flusso dei profughi, se non favorirne il ritorno. Quest’ultimo punto interessa l’Italia da sempre, anche se oggi suona singolare che il governo abbia riaperto in estate senza il beneplacito europeo l’ambasciata a Damasco, cercando di normalizzare le relazioni con il super-sanzionato Assad. Vanno aggiunti Gaza, Libano, l’Ucraina e la minaccia russa. Tutto si tiene, insomma, e Mosca sogna un impero e uno sbocco al mare per la sua flotta, cosa che il tiranno alauita gli aveva dato in cambio di appoggio economico e militare.
Siamo circondati da conflitti. In Siria si riparte da zero, sebbene a Bruxelles nessuno sia ottimista. Il presidente eletto Donald Trump è persuaso che «questa non è la nostra guerra», pertanto resta alla finestra nonostante le basi americane in territorio siriano. «Il mondo ci aspetta», assicura.
È un modo per guadagnare settimane, ma pure per dire che il contesto resta duro e i duri dovrebbero scendere in campo. Washington garantisce a suo modo che lo farà. Senza un cambio di passo, l’Europa dalle troppe politiche e dalle molteplici voci è candidata a restare in panchina.
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