Una chimera chiamata destra liberale

Sempre e solo polarizzazione e campagna elettorale permanente e la presidente del Consiglio che non dismette i panni di capo-partito

Massimiliano PanarariMassimiliano Panarari

«Missione compiuta», si potrebbe dire. Nel senso che la finalità (primaria o accessoria) della premier di spostare la discussione mediante l’attacco agli autori del Manifesto di Ventotene (1941), applicando per l’ennesima volta il frame comunicativo dell’«arma di distrazione di massa», è stata raggiunta. Il dibattito ferve, i media filogovernativi picchiano duro, nelle scorse ore una delegazione dei partiti del sinistracentro – senza M5s – ha portato dei fiori sulla tomba di Altiero Spinelli. Sempre e solo polarizzazione e campagna elettorale permanente, insomma, secondo uno schema nel quale il Pd si ritrova nove volte su dieci a reagire alle iniziative (o alle provocazioni) della presidente del Consiglio che non dismette i panni di capo-partito, senza riuscire praticamente mai a orientare l’agenda non diciamo politica («vasto programma»...), ma neppure comunicativa.

Provando a fare un po’ di ordine in una discussione apparsa da subito strumentale, sarebbe opportuno contestualizzare le parole di questi padri fondatori dell’idea federalista europea, e ricordare la loro condizione di cattività sotto la dittatura fascista in quel Novecento che è stato il «Secolo delle ideologie».

E, dunque, come ha sottolineato Massimo Cacciari, lo spirito autentico di quel documento si rivela estraneo a tutti gli attori odierni dell’Unione europea, dove gli Stati nazione continuano a dare le carte sulle questioni decisive, mentre la presenza onnipervasiva degli apparati burocratici e delle tecnostrutture della Commissione e del Consiglio non rientrava di sicuro nella visione eminentemente politica dei “sognatori” europeisti al confino, che venne condivisa sotto molti aspetti da Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer. E le accuse di statalismo forsennato, ma pure quelle sull’abolizione della proprietà privata, mosse secondo la consueta retorica «ad alzo zero» da Meloni estrapolando in maniera strumentale delle frasi dal Manifesto, appaiono lontanissime dall’orientamento marcatamente liberale di Ernesto Rossi (leggere, per credere, il suo Breviario di un liberista eretico uscito di recente da Rubbettino).

A dirla tutta, pertanto, Meloni è l’ultima persona a potersi permettere di accostare l’aggettivo illiberale alla parte politica avversaria. Certo, il Partito democratico attuale non è qualificabile come liberal-socialista – e questo è un peccato, perché quella cultura andrebbe valorizzata decisamente di più. Il partito guidato da Elly Schlein ha altre sensibilità prevalenti, e scommette su idee differenti (specie alcune di lungo corso) dell’opinione pubblica di sinistra, convinto che questa fase storica sia dominata da in particolare culture politiche populiste, con le quali vuole assolutamente rimanere in sintonia.

Ma Meloni è la responsabile principale – lei che ne avrebbe l’autorevolezza, oltre che l’autorità, presso i suoi gruppi dirigenti – della mancata conversione del suo partito nella direzione di una destra liberale (e lo mostra anche il perdurare della damnatio memoriae nei confronti di Gianfranco Fini, che fu suo mentore). Come pure di quell’ambivalenza e ambiguità che costituiscono il nocciolo duro del neopopulismo.

Ecco perché la “fronda” veneta di FdI con il suo richiamo a Ventotene va guardata con grande attenzione – e proprio in una chiave di “normalità” liberal-conservatrice. Precisamente ciò di cui ci sarebbe un gran bisogno. 

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