La premier Meloni affronta l’esame di leadership

Il caso di Cecilia Sala, la giornalista incarcerata a Teheran, è il momento più delicato: ha addosso gli occhi del mondo

Carlo Bertini
Giorgia Meloni in un momento della visita lampo a Mar-a-Lago
Giorgia Meloni in un momento della visita lampo a Mar-a-Lago

«Rispetto al caso Sala, il segnale che ha voluto dare il presidente eletto Trump accettando di incontrare la premier italiana è già di per sé positivo», fanno notare fonti della nostra diplomazia.

Che da giorni lavorava a questo summit, preparato con la massima riservatezza in tandem con la Farnesina (Tajani in primis) e con l’ambasciatrice italiana a Washington, Mariangela Zappia, presente non a caso alla cerimonia a Mar-a-Lago dove Giorgia Meloni è stata l’ospite d’onore.

Ma da qui a dire che Donald Trump e il suo staff abbiano dato il placet all’ipotesi di non estradare negli Usa l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, “l’uomo dei droni” sospettato di collaborazionismo tecno-militare con i russi, ce ne corre.

Anche se la premier, come svela il New York Times, ha esercitato «un pressing insistente, in modo aggressivo» per discutere con Trump l’affaire Sala, il groviglio non sarebbe ancora sciolto.

Ma quello che al momento è considerato il piano A del governo italiano non sarebbe stato respinto subito al mittente. Anzi il presidente avrebbe accettato di parlarne.

E a questo si appigliano le speranze del governo di sentirsi nei prossimi giorni autorizzati a portarlo avanti, senza rovinare i rapporti con la nuova amministrazione.

La missione lampo di Meloni dunque è stata il primo cruciale tassello di una strategia che si muove su un filo, orientata a far tornare a casa Cecilia Sala, la giornalista incarcerata a Teheran, senza assecondare la richiesta degli americani di vedersi consegnato in manette Abadini.

Ma senza irritarli troppo, cercando la loro benedizione alla ragion di Stato dell’alleato italiano, propenso a fare buon viso a cattivo gioco su quello che a tutti gli effetti sarebbe uno scambio di prigionieri con l’Iran. In forme tutte da verificare, visto che tra le ipotesi c’è anche quella di trasferire Abadini in Svizzera, dove è stato rilasciato uno dei suoi passaporti.

Quindi al dilemma se andare o non andare il 20 gennaio al giuramento di Donald Trump a Washington, facendo da comparsa alla festa del sovranismo mondiale in mezzo a compagnie imbarazzanti, da Orbán a Le Pen, mettendo a rischio il ruolo di portavoce dell’Europa che conta, Giorgia Meloni ha risposto giocando d’anticipo. Anche perché il 15 gennaio è prevista la decisione dei giudici della Corte di appello di Milano sui domiciliari ad Abadini.

Quindi, andare prima a rendere omaggio al tycoon, sfruttando l’occasione per guardarlo negli occhi mentre gli sottoponeva le sue istanze era una buona occasione.

Anche quelle su un punto meno urgente ma non meno importante, quello del colpo che subirebbe l’economia dl Bel Paese se subisse l’aumento del 10 per cento dei dazi minacciato a Trump ai Paesi europei.

E sul dossier Ucraina, che vede l’Italia in coda ai Paesi che rispettano il 2 per cento del Pil devoluto alla Nato per le spese militari. Senza alcun dubbio, questo è il momento più delicato della sua premiership.

Da come uscirà da questo tornante si vedrà di che stoffa è fatta la leader di FdI. Costretta a decidere che postura tenere in quella che di fatto è la più grossa crisi internazionale da quando si è insediata: una vicenda che vede da due settimane l’Italia stretta tra due fuochi, vaso di coccio tra vasi di ferro, strumento di guerra ibrida tra Usa e Iran, come ha messo nero su bianco il Washington Post.

Insomma un grande pasticcio diplomatico in cui si vedrà se abbia fondamento quanto afferma la grancassa di Fdi sulla ritrovata autorevolezza dell’Italia all’estero (che certo non era certo venuta meno nell’era Draghi) da quando governa Meloni.

Di sicuro, spingendo il tasto “pause” sulla condizione attuale della premier, spunta un “effetto nemesi”: il terreno che ha rappresentato il palcoscenico migliore per rafforzare il suo profilo, ovvero quello della politica estera (dove ha incassato il successo della vicepresidenza Ue a Raffaele Fitto) in questo inizio d’anno si è trasformato in una foresta piena di trappole.

Proprio nel secondo tempo del suo mandato, che ad aprile avrà compiuto il giro di boa dei due anni e mezzo.

Con una maggioranza divisa sul destino dell’Ucraina, nonché su Gaza e su altri dossier esteri, la strada si sta facendo scivolosa e il caso Sala andrebbe sciolto al più presto. Senza litigare con Trump.

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