Noury (Amnesty): «Cecilia Sala usata come ostaggio da uno Stato che siede all’Onu»

Il portavoce di Amnesty International Italia parla dell’arresto della reporter italiana: «Quel carcere è simbolo della repressione»

Annalisa Girardi
La giornalista Cecilia Sala
La giornalista Cecilia Sala

Il carcere di Evin, dove si trova Cecilia Sala «è il simbolo della repressione di ogni forma di dissenso in Iran». Per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ci potrebbero essere varie ragioni dietro l’arresto della giornalista. Potrebbe essere stata fermata per il suo lavoro, per i suoi articoli e i suoi podcast. Oppure il suo caso potrebbe essere collegato a quello di Mohammad Abedini Najafabadi, il cittadino iraniano arrestato a Malpensa. In ogni caso, per Noury, le relazioni con l’Iran non potranno più essere le stesse.

Cosa ci può dire del carcere di Evin?

«È un carcere in funzione ormai da decenni. I leader dei movimenti per i diritti umani, giornalisti, avvocati, Nobel per la pace, tutta la classe intellettuale di opposizione del Paese finisce lì. È una prigione enorme, divisa in blocchi. Da quello che sappiamo Cecilia Sala si troverebbe in isolamento. Questo le impedisce di avere quella risorsa elementare che c’è in prigione, cioè la solidarietà delle altre detenute. Ci dicono che sarebbe in condizioni buone, ma quella è una prigione in cui l’espressione “condizioni buone” lascia il tempo che trova».

Si è fatto qualche idea su quello che è accaduto e cosa potrebbe succedere?

«Mi sono fatto varie idee, in questo momento nessuna prevale sulle altre. La prima è che Cecilia Sala sia stata punita per la sua attività di giornalista, per i suoi podcast e le sue corrispondenze, per aver raccontato la storia di tante donne, che sono le vittime designate del governo iraniano, tanto che le attiviste parlano di apartheid di genere nel Paese. Però sarebbe il primo caso dalla rivolta “Donna, vita, libertà” in cui un giornalista straniero finisce in carcere. Quindi potrebbe essere che ci sia qualche altra ipotesi in campo: non dimentichiamoci che oltre a essere una prigione per i giornalisti – Sala dovrebbe essere la numero 42 in carcere, gli altri 41 sono giornalisti iraniani – l’Iran è anche uno Stato che ha l’abitudine, un po’ similmente a un’impresa criminale, di prendere cittadini occidentali, o con doppio passaporto, arrestarli con accuse pretestuose e tenerli in ostaggio in cambio di qualcosa».

Ad esempio?

«In questa situazione molto incerta ci sono tre date che dobbiamo considerare. Il 16 dicembre è il giorno in cui viene arrestato a Malpensa un collaboratore dei Guardiani della Rivoluzione. È un cittadino iraniano residente in Svizzera, che gli Stati Uniti chiedono di estradare in quanto avrebbe fornito sostegno materiale per un attentato contro militari USA in Giordania. Il 17 dicembre sui social la diaspora iraniana mette in guardia cittadini italiani o irano-italiani dall’andare nel Paese, parlando del rischio di ritorsioni. Il 19 dicembre viene arrestata Cecilia Sala. Può essere quindi che sia stata arrestata non in quanto giornalista, ma in quanto cittadina occidentale».

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Renzo GuoloRenzo Guolo
Cecilia Sala

Parlando delle ipotesi in campo le autorità italiane hanno però chiesto di mantenere discrezione, in quanto ci sono iniziative diplomatiche in corso. Come si fa coincidere questa esigenza con, dall’altra parte, un interesse pubblico fortissimo per la vicenda?

«È lecito che nel momento in cui viene arrestato un connazionale le autorità italiane utilizzino forme non pubbliche di contatto per cercare una soluzione positiva rapidamente. Dopodiché, questo modus operandi è durato otto giorni. Evidentemente quella forma di negoziato assolutamente riservato non stava dando risultati. Ora c’è di nuovo un invito a tenere un basso profilo. Se questo arriva dai familiari, dai direttori degli organi di informazione per cui Sala lavora, allora va seguito. Se è la tradizionale forma, un po’ rituale, dei governi che dicono di volerci pensare loro perché la mobilitazione è controproducente, il discorso è diverso: perché se questo fosse vero probabilmente Patrick Zaki sarebbe ancora in un carcere egiziano, forse Amnesty International non sarebbe mai nata e il mondo sarebbe pieno di gente che i governi non riescono a liberare perché non hanno alle spalle un’opinione pubblica che freme».

La società civile può fare la sua parte, quindi…

«Storicamente è stato dimostrato di sì. Ci sono state, proprio in Iran, delle scarcerazioni di detenuti e delle condanne a morte - in quel disastro che è la pena di morte in Iran, perché siamo arrivati sotto Natale a 950 impiccagioni quest’anno – che sono state commutate. La mobilitazione dell’opinione pubblica serve a non far dimenticare le cause e a spronare i governi ad agire. E poi un’ultima osservazione».

Cioè?

«La riservatezza serve quando si ha a che fare con una banda criminale che rapisce una persona. Ricordiamo tutti il caso di Silvia Romano: lì fu imposto il silenzio e quella strategia è stata vincente. Ma quello è il caso di una persona rapita da una banda di sequestratori. Qui c’è uno Stato che ha la sua diplomazia, che ha relazioni con il resto del mondo – sebbene molto tese – e che sta nelle Nazioni Unite. Non si può equiparare l’Iran a un’impresa criminale. Oppure, si sta cercando di dare un messaggio diverso. Cioè che questa non sia una situazione normale, ma che siamo di fronte – e questo lo sostengo anche io con Amnesty – a uno Stato che usa cittadini stranieri come ostaggi».

Secondo lei come peserà questo caso nelle future relazioni tra Occidente e Iran?

«Nulla può andare come prima. Nel 2022 hanno sequestrato una nostra connazionale tenendola 40 giorni a Evin, nel 2024 hanno sequestrato un’altra connazionale, una giornalista – sperando che passino meno di 40 giorni per il suo rilascio – ed è chiaro che nulla potrà andare come prima, anche se noi siamo abituati a fare andare tutto esattamente come andava prima, basti pensare alle meravigliose relazioni con l’Egitto. Il governo però non può rimanere indifferente se una sua cittadina viene arrestata per il fatto di essere italiana o per il fatto di essere giornalista».

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