Piccola breve storia della Liga Veneta: da Rocchetta al dissenso verso Salvini
Francesco Jori, Albino Salmaso, Enrico PucciTutto comincia da poche persone, per giunta coperte dai rumori di una stagione di drammatiche tensioni sociali, segnata dagli “anni di piombo”. Ma è proprio nei dintorni di quel caldo 1977 che una generazione di ventenni veneti trova nel mito della Repubblica di Venezia la spinta e il collante per dare vita a un gruppo culturale.
Parte da lì il cammino che porterà a Umberto Bossi: da un corso di lingua e cultura veneta, attorno al quale nasce un po’ alla volta un partito, che si costituisce ufficialmente nel gennaio 1980, nello studio di un notaio di Padova, con un atto sottoscritto da quattordici membri.
Il suo nome è Liga Veneta, e non a caso anni dopo il suo leader, Franco Rocchetta, la chiamerà “la madre di tutte le leghe”. Alla sua radice c’è la rivendicazione dell’identità regionale, condensata in uno slogan: “Veneti da oltre tremila anni, italiani da poco più di cento”.
È un movimento privo di mezzi, e basato totalmente sul volontariato, con volantini e manifesti scritti a mano, attacchinaggio clandestino, propaganda porta-a-porta, e riunioni in bar o trattorie. I due primi congressi, a distanza di pochi mesi, si tengono tra il 1979 e il 1980, a Recoaro e Feltre. Alle amministrative dell’80 viene eletto il primo consigliere comunale: Giulio Pizzati, a Valdagno. Il botto arriva alle politiche del 1983, a sorpresa, la Liga Veneta elegge due parlamentari, ottenendo i successi più significativi proprio nelle zone dove più forte è la Dc.
Eppure, non è affatto un caso: il voto alla Liga arriva proprio da settori di elettorato democristiano che non si sentono più rappresentati, soprattutto sul piano dell’identità e della tutela degli interessi, da quello che per decenni era stato il loro partito di riferimento, e che fino a pochi anni prima poteva ancora contare sulla maggioranza assoluta.
Peccato che siano gli stessi leghisti della prima ora a tarparsi le ali, con una lunghissima stagione di autentiche “baruffe chiozzotte” che ruotano attorno al suo leader Franco Rocchetta: cominciano già all’indomani del successo elettorale, e si trascinano con una serie di purghe ed espulsioni, ma anche polemiche uscite volontarie: specie quelle di Flavio Contin e Luigi Faccia, che nel 1997 faranno parte del “commando” autonomista salito in cima al campanile di San Marco.
La Liga ne paga lo scotto in termini di consensi: alle politiche ’87 resta fuori dal Parlamento, mentre vi entra un giovane Umberto Bossi che nell’84 ha dato vita alla Lega Lombarda. È l’inizio dell’escalation di quella che nel 1991, a Pieve Emanuele, si costituirà in Lega Nord: da lì in avanti, ai veneti resteranno regolarmente le briciole. E a pagarne lo scotto sarà lo stesso Rocchetta in persona, che nel ’94 se ne andrà assieme alla moglie Marilena Marin, essendosi ridotto ormai a tappezzeria.
Alle basi del clamoroso boom del Carroccio bossiano ci sono elementi precisi, che ne fanno “il principale elemento di novità nel sistema politico italiano del dopoguerra, e il maggior fattore di movimento e di mutamento negli orientamenti politici ed elettorali della società italiana”, come sottolinea Ilvo Diamanti, uno dei principali studiosi del fenomeno.
Sono motivi che si possono individuare soprattutto nella rivendicazione di una forte spinta federalista, nel contrasto con lo Stato centrale identificato con Roma e con la grande impresa simboleggiata in Torino, nel rifiuto di un’economia assistita, nella protesta contro i vincoli della burocrazia, nella richiesta di riforma fiscale e di infrastrutture, nella domanda di visibilità e di riconoscimento di alcune figure tipiche di un certo nord, cominciando da quelle di piccola impresa. Insomma, un ruolo da “sindacato del nord”: quello che oggi il dissenso interno imputa a Salvini di avere tradito.
Sarà soprattutto il voto alle politiche del 1996, in cui la Lega diventa il primo partito al nord con 4 milioni di voti pari al 21 per cento, toccando in Veneto addirittura il 30, a fotografare bene quel “certo nord”: si tratta di una fascia pedemontana che corre tra Cuneo in Piemonte e Udine in Friuli, fatta da località piccole e medie, ad alto indice di industrializzazione e a basso tasso di disoccupazione.
È la parte più produttiva e localistica del nord, in cui si riflettono una serie di fratture: tra centro e periferia, tra nord e sud, tra privato e pubblico, tra società civile e partiti tradizionali. Ma è anche l’espressione di un nord che si sente abbandonato sotto molti profili, da quello socio-economico a quello territoriale: la Lega, negli anni Novanta, sottrae alla sinistra molto voto operaio nelle fabbriche, e al centro molto voto cattolico nelle periferie.
Qualcuno ha capito queste dinamiche con largo anticipo, nella stessa Dc, ma la sua è rimasta una voce isolata. Come Antonio Bisaglia, uno dei più autorevoli leader Dc, il quale nel 1982 spiega a Ilvo Diamanti: «Per lo sviluppo effettivo delle potenzialità del Veneto, l’ostacolo principale è nella visione centralistica che prevale ancora in Italia. Centralista e burocratica. Se ciò fosse possibile, direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare a uno Stato federale. Ma l’Italia no, non sarebbe pronta».
Bisaglia ha in mente per la sua Dc veneta un ruolo autonomo rispetto alla Dc nazionale, sul tipo di quello che intercorre in Germania tra Cdu e Csu. Ma muore in un incidente due anni dopo, e con lui muoiono le spinte autonomiste della Dc, aprendo così spazi enormi all’azione politica della Lega. Che li cavalcherà alla grande. (Francesco Jori)
Lo scacco lombardo alla Liga
Indipendenza, federalismo, autonomia: la trilogia della “Nathion Veneta” che lotta per liberarsi dalla burocrazia di “Roma ladrona” nasce 44 anni fa con Franco Rocchetta, definito da Giorgio Lago «il padre della Liga Veneta, la vera madre di tutte le Leghe». Quel 16 gennaio 1980 a Padova nello studio del notaio Todeschini, si presentano 15 soci ma Rocchetta non firma, è in partenza per una delicata missione a Strasburgo.
«Sia chiaro, senza di noi Bossi non avrebbe mai fondato il 12 aprile 1984 la Lega Autonomista Lombarda. Cosa penso di Umberto? Lo scandalo dei diamanti la dice lunga sul suo modo di fare politica», racconta il leader autonomista che, come Bossi, non è mai diventato un medico. Ma se il leader dei “lumbard” raccontava alla moglie che andava in ospedale e invece faceva proseliti nel Varesotto con la tessera del Pci in tasca, Rocchetta dopo aver imparato le lingue d’Europa diventerà l’ideologo della Liga assieme a Marilena Marin, che sposerà nel 1986, dopo aver fondato la Società Filologica e frequentato i corsi del dialettologo Manlio Cortelazzo.
Una coppia di ferro che dal 1985 al ‘99 varca le soglie di tutte le istituzioni: il consiglio regionale, il Parlamento italiano e quello di Bruxelles. Il programma è chiaro: l’indipendenza o l’autonomia con il federalismo fiscale perché “Roma ne ciucia eà sangue e eà anema” recitano i manifesti con i muri imbrattati dalle scritte “Fora i teroni” e “forza Etna”.
Il debutto in politica nel 1978-‘79 con l’Union Voldotaine di Bruno Salvadori è un buon avvio e nel 1983 la Liga elegge deputato Achille Tramarin e senatore Graziano Girardi: è il primo colpo all’establishment tanto che la Dc con Tina Anselmi corteggia Tramarin che convoca un congresso straordinario a Padova il 9 ottobre, ma lo perde e con un pugno di fedelissimi fonda la Liga Veneta Serenissima. La querelle sul nome e il simbolo arroventa le aule dei tribunali, fino a quando una sentenza della Cassazione bolla come un “congresso di fantasmi” l’adunata di Tramarin: in campo c’è solo Rocchetta, corteggiato dai lùmbard.
A fare il primo passo è Giuseppe Leoni, l’architetto che presta i soldi a Umberto Bossi poi eletto in Parlamento ma le figure chiave sono Roberto Maroni e Francesco Speroni. “Bobo” è un extraparlamentare di sinistra, suona il sassofono e tiene alla larga la Nathion Veneta per spalancare le porte al vento secessionista che soffierà dal ‘96 con le marce sul Po del popolo della Padania.
«Se Bossi, Leoni e altre 4 persone vanno dal notaio il 12 aprile 1984 è perché si vogliono presentare alle elezioni europee senza raccogliere le firme e chiedono aiuto alla Liga Veneta. Umberto l’abbiamo conosciuto nell’81 a Brescia all’incontro per aiutare Enrico Rivolta, editore di un giornale che diventerà Vento del Nord. Bossi si presentò con una contessina, sua mecenate e insieme sognavano Maria Teresa d’Austria o gli stati fantoccio di Napoleone incentrati su Milano», racconta
Rocchetta, che ha 77 anni, ripercorre le tappe della sua carriera. Nel 1985 entra a palazzo Ferro Fini con Ettore Beggiato: la galassia autonomista si allarga e nel 1989 a Bergamo, “terra di San Marco”, nasce la Lega Nord come federazione di Lega Lombarda, Liga Veneta, Piemont Autonomista, Unione Ligure, Lega Emiliano Romagnola e Alleanza Toscana. Bossi usa subito il pugno di ferro e impone il guerriero Alberto da Giussano nel simbolo elettorale e il leone di San Marco diventa invisibile sullo scudo, mentre Marilena Marin viene eletta presidente federale.
«Sì, è vero, noi veneti siamo stati ingenui, solidali e generosi», spiega Rocchetta, «ma l’esaltata potenza della Lega Lombarda deriva dal fiume di denaro versato da Berlusconi a Bossi. Nel ‘94 mi nominano sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi e capisco che il federalismo non lo avremmo mai ottenuto: Gianfranco Miglio progettava le macroregioni con Milano capitale dell’Italia, sul modello della Repubblica Cisalpina e del Regno d’Italia di Napoleone. A Bossi premeva solo che frequentassimo il salotto della cognata di Dell’Utri, e a Berlusconi che sapessimo comunicare bene in tv, come Daniela Santanché, Giulio Tremonti e Umberto Bossi dopo aver frequentato i corsi della Fininvest».
La resa dei conti si consuma il 30 luglio 1994: mentre a Roma dopo la macerie di tangentopoli sta per nascere il primo governo della seconda repubblica con Fi, An e Lega, all’hotel Sheraton di Padova arriva Bossi in elicottero e sconvolge i piani, con l’aiuto di Mariella Mazzetto, deputata padovana e sottosegretaria all’Istruzione. «Era scortato da una ventina di bodyguard e da forze di polizia straboccanti che hanno militarizzato la sala: è salito sul palco, ha imposto il voto palese e le sorti del congresso si sono rovesciate. Ha vinto il golpismo» racconta Rocchetta dopo lascerà la Liga con tutto il suo gruppo.
Marilena Marin concluderà la legislatura a Bruxelles nel 1999, ma la coppia di ferro è impegnata su fronti non politici. Cala il silenzio, fino al blitz del 2 aprile 2014: con una quarantina di federalisti nostalgici dei “Serenissimi” di piazza San Marco del 1997, è accusato di “terrorismo, eversione e insurrezione armata contro lo Stato”. Scattano le manette anche per Rocchetta: 3 settimane di carcere, ma sarà poi assolto da tutte le accuse con sentenza definitiva.
Il padre della “Nathion Veneta” ha un solo cruccio: «In tribunale non mi hanno mai interrogato, ai magistrati volevo spiegare la mia idea di indipendenza libera e democratica» racconta mentre passeggia tra i ciliegi in fiore con la moglie. E del giovane Matteo, erede di Bossi, che dire? «Nel governo Meloni ha nominato 4 ministri, tutti lombardi: Giorgetti, Calderoli, Locatelli con Salvini vicepremier. Ai veneti di Zaia due poltrone di serie B da sottosegretario con Ostellari e Bitonci e la presidenza della Camera al fedelissimo Fontana. La strada della pari dignità è lontana. La storia non cambia: “Il Veneto da trent’anni è schiavo e servo di Milano”». (Albino Salmaso)
Il primo congresso a Recoaro: «Tutto cominciò per l’autonomia»
Nove dicembre 1979: a Recoaro si celebra il primo congresso della Łiga veneta. Quel giorno, Paolo Bergami c’era, al Gran Caffè Municipale, location prescelta per l’atto fondativo «perché ce la davano gratis. E perché il gruppo dei vicentini era uno dei più numerosi». Paolo Bergami, allora ventiseienne, padovano, è uno dei 14 soci fondatori della Łiga che si presentarono il 16 gennaio 1980 nello studio del notaio Tedeschini, in Galleria Storione 8, a Padova, a firmare l’atto costitutivo. Rileggiamoli, i nomi dei pionieri: Michele Gardin, Luigi Ghizzo, Bruno da Pian, Patrizio Caloi, Paolo Bergami, Giuseppe Faggion, Marilena Marin, Agostino Alba, Giannico Faggion, Rino Basaldella, Valerio Costenaro, Luigi Fabbris, Guido Marson, Achille Tramarin. «Venivamo dai corsi della Società Filologica Veneta - e ci accomunava fin dall’inizio la passione per la storia della civiltà e della lingua veneta - ricorda Bergami -. In quel contesto, era cresciuta la consapevolezza e la volontà di andare oltre l’ambito strettamente culturale, di fare qualcosa di politico. L’autonomia fu, fin dal principio, la nostra stella polare».
Ecco, l’autonomia. In quasi 45 anni, da quel 9 dicembre 1979, non ci siamo mai arrivati così vicini come oggi, con un disegno di legge approvato da uno dei due rami del Parlamento. È “tanta roba”, facciamo notare a Bergami. «È qualcosa, una partenza», riconosce e al tempo stesso frena il nostro interlocutore. «Però credo davvero che possa essere la volta buona: se alla Camera la maggioranza ha tenuto, penso che succederà anche al Senato. Finalmente. Ed è paradossale - fa notare Bergami - che ci si stia riuscendo solo oggi con una presidente del Consiglio erede della tradizione della destra».
Il Gran Caffè Municipale è chiuso da qualche anno. Emblema della decadenza che nei decenni passati ha caratterizzato questa località termale che nell’Ottocento era fiorente meta di turisti mitteleuropei, dove la regina Margherita aveva una dimora di villeggiatura e dove soggiornò persino Nietzsche. La rinascita però è iniziata - giura il sindaco, Armando Cunegato - abbiamo vinto il premio Borghi del Pnrr, 20 milioni per ripartire». Con quei fondi si sta già rifacendo la centralissima via Roma, poi arriveranno il teatro comunale e altri edifici storici. La cabinovia per Recoaro 1000, quella no: sarà probabilmente rasa al suolo, perché a quota mille non si scia più, né qui né altrove, con la crisi climatica e il riscaldamento globale.
Chiusa la parentesi, torniamo alla Łiga e a quei giorni formidabili. «Alle elezioni europee del 10 giugno 1979, con il nostro candidato Achille Tramarin, avevamo preso 8 mila voti nella lista dell’Union Valdotaine, senza praticamente fare campagna in televisione: un gran risultato. Un buon motivo per andare avanti».
Fecero la loro comparsa il simbolo del Leone di San Marco e il nome Łiga veneta («Con la elle barrata, per via della pronuncia veneta e dell’assonanza: lo decise Rocchetta dopo un viaggio in Polonia»). Eppure proprio quel giorno a Recoaro iniziarono le prime baruffe che avrebbero poi per sempre contrassegnato la storia di questo partito litigioso, a colpi di spaccature e di espulsioni. «Dalla platea si alzarono alcuni con toni antimeridionalisti e furono zittiti - racconta Bergami - ma poi la cosa finì in qualche artiolo di giornale». In realtà, in quel primo statuto, sotto il cappello della lotta per l’autonomia, non si parla né di “fòra i teroni” né di protesta fiscale.
Paolo Bergami non ha mai ricoperto cariche istituzionali o amministrative. Insegnante alle elementari, la sua militanza nel partito si è andata esaurendo negli anni Ottanta, dopo l’accordo fra la Łiga e i lumbard. «Rocchetta prima vinse una lunga battaglia legale per l’uso del nome e del simbolo e poi ci consegnò a Bossi: noi non eravamo d’accordo. Diciamo che eravamo più che altro degli idealisti. E piuttosto ingenui».
«Bossi ebbi modo di conoscerlo in quegli anni - continua Bergami - e devo dire che non mi piacque. Un’impressione che si sarebbe rafforzata nel tempo. Quando un gruppo di nostri parlamentari propose una legge per l’autonomia del Veneto, fu proprio lui a dare ordine di bloccarla. E con Bossi al governo l’autonomia non è andata avanti di un millimetro».
Dopo il debutto a Recoaro, un secondo congresso a Feltre nel giro di poche settimane (il 9 marzo 1980). Michele Gardin, scomparso due mesi orsono, apre gli interventi dicendo che è venuta l’ora di battersi contro il «colonialismo romano» e chiedendo che il veneto venga insegnato a scuola. Il congresso stesso viene interamente celebrato in veneto e ci scappa pure una censura ufficiale a un delegato cui era sfuggito un «okay».
Il botto, elettoralmente parlando, arriva alle Politiche del 1983: 123.892 voti alla Camera e 91.171 al Senato, due eletti in Parlamento: Achille Tramarin alla Camera e Graziano Girardi al Senato. La Łiga veneta è diventata l’ombrello di tutti gli elettori scontenti verso il sistema politico. E la Lega Nord è ancora di là da venire. (Enrico Pucci)
La Lega e il dissenso che cresce a Nord Est
Per Totò non era un’offesa, ma un consiglio: «Lei è un cretino, s’informi». Invece di prendere come un suggerimento la provocazione di Toni Da Re, verificarne il motivo e casomai smentirlo dati alla mano, l’autoproclamato Capitano leghista Matteo Salvini ha preferito sbrigativamente espellerlo per interposto subalterno.
E per far capire l’aria che tira, ha fatto avvertire i suoi che devono astenersi da qualsivoglia critica pubblica alla sua linea: se ne parla solo all’interno del partito. Giustissimo, se ci fosse un partito dove si discute, e non uno dove il Capo decide in blindata solitudine perfino di cambiargli nome e linea politica, senza uno straccio di confronto.
Per carità, le espulsioni nella Lega sono la regola già dalle remote origini venete, quando Bossi era ancora un signor nessuno: Franco Rocchetta, padre-padrone della Liga, era un buttafuori seriale, fino a subire il contrappasso della sua stessa cacciata a opera del senatùr; che di licenziamenti in tronco ha usato e abusato, a sua volta diventandone vittima nella farsesca notte delle scope.
L’unica cosa che Salvini non ha cambiato nel partito è stata la scelta di mettere fuori dalla porta chi dissente dalla linea del pensiero unico: che peraltro, a differenza del suo ben più carismatico predecessore, cancella l’identità stessa della Lega, sostituendola con un nuovo soggetto sovranista, populista, malpancista, tutto centrato sul protagonismo del leader.
Solo che questa radicale sterzata sta provocando un effetto collaterale ormai di tutta evidenza: l’autoespulsione dell’elettorato. Alla faccia del suo esasperato movimentismo, Salvini non riesce a schiodare il consenso da un abborracciato 8 per cento; ed è questo il motivo principale delle critiche sempre più consistenti che salgono dall’interno, di cui la sparata di Toni Da Re non è che il detonatore.
bossi alla festa lega nord al prato della fiera
Il Veneto è l’epicentro del dissenso perché da sempre con la Lombardia è di gran lunga l’azionista di maggioranza della Lega; perché qui negli ultimi tempi ha subìto urticanti sconfitte a Padova, Verona e Vicenza; perché tra un anno si voterà per le regionali e intanto è stata ampiamente scavalcata da Fratelli d’Italia che rivendica la guida, alla faccia dei goffi tentativi di aggrapparsi a San Luca (Zaia) facendone una sorta di presidente a vita.
Ma il malessere va ben oltre i confini veneti, ed è destinato a presentare il conto alle ormai imminenti europee: se il dato fosse negativo, la “Lega per Salvini premier” cesserebbe inesorabilmente di esistere. E il dissenso dal Capitano si tradurrebbe in un ritorno al partito delle origini, legato alla tutela degli interessi del nord. Con chi alla guida?
Al momento, le bordate di Da Re sono destinate a rimanere isolate. Ma il giorno dopo la successione si aprirebbe. Con un candidato per ora silente, ma su cui convergono ampi consensi: Massimiliano Fedriga, che in punta di piedi ha saputo ritagliarsi un ruolo di livello nazionale. Molto più del pur gettonato collega Luca Zaia, che sembra incarnare il tipico detto veneto «mi non vado a combàtar».
Un Fedriga che comunque, rispetto a Salvini, richiama un’altra antica perla di saggezza sempre in salsa veneta: «Prima de parlar, tàsi». (Francesco Jori)
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