Buttafuoco: «Dopo i manicomi, superare anche il sistema carcere»

Il presidente della Biennale: «Eliminare le carceri un fatto di civiltà». Alberta Basaglia: «Passi indietro nei servizi psichiatrici»

Maria Ducoli
Pietrangelo Buttafuoco
Pietrangelo Buttafuoco

«Come nessuno osa tornare indietro sui manicomi, in quanto superarli è stato un fatto di civiltà, al tempo stesso non dovremmo più sognarci di continuare con il sistema carcerario». Una provocazione, quella del presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, lanciata dal palco della Fondazione Querini Stampalia, durante l’incontro “Basaglia e la libertà, l’impatto nel mondo”.

L’indomani della critica del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ai magistrati in quanto presunti «responsabili del sovraffollamento», Buttafuoco mette in discussione l’intero paradigma del sistema carcerario, sottolineando non solo la necessità ma anche l’urgenza di superarlo, di andare oltre quello spazio chiuso, in cui ogni piccolo problema può esplodere generando tensioni fortissime, in cui spesso il suicidio viene visto come l’unico angolo di libertà, al tempo stesso atto di disperazione e di liberazione, che vuole valere come una condanna per chi resta. Per l’intero sistema. Il presidente della Biennale crede nella possibilità di andare oltre, che significa, in primis, dare un lavoro ai detenuti, riportarli fuori, nel mondo e nella comunità, per farli sentire parte di qualcosa.

«Dall’anno scorso abbiamo avviato in forma sperimentale un percorso di inserimento lavorativo con la Biennale» spiega il direttore della casa circondariale di Santa Maria Maggiore, Enrico Farina, «allora aveva interessato una sola persona ma ne siamo stati entusiasti, perciò quest’anno i numeri cresceranno» anticipa, facendo sapere di essere impegnato proprio in queste settimane per la valutazione dei requisiti.

«Il compito del carcere è anche capire chi può essere pronto per il reinserimento, sto dicendo anche agli altri direttori del Triveneto che se hanno persone che possono essere adatte a questo tipo di lavoro, potrebbero essere trasferite da noi» aggiunge. L’obiettivo è sempre lo stesso: permettere loro uno sguardo oltre quei ristretti orizzonti segnati dalle sbarre. Oltre la propria pena e i propri errori.

Nella città di Basaglia, la critica alle istituzioni totali, dal carcere ai manicomi in quanto strutture che racchiudono in maniera ermetica dentro di sé il dramma individuale, non poteva che essere accolta da Alberta Basaglia, figlia dello psichiatra che rivoluzionò la concezione della malattia mentale e del suo trattamento. «Nessuno si sognerebbe di aprire più un manicomio, ma la sensazione generale è che anche nei servizi psichiatrici si stia tornando piuttosto indietro, utilizzando anche la contenzione, che era completamente scomparsa».

Un quadro, spiega, non certo rassicurante che rende difficile pensare al superamento dell’altra istituzione totale rimasta, quella carceraria. Viene da chiedersi quanto questi «passi indietro» siano legati alla crisi di personale con cui la sanità si sta scontrando, ma per Basaglia è solo una scusa: il problema è un altro e sta a monte.

«Credo che ci voglia più accoglienza e volontà di ascolto rispetto al problema della salute mentale e, più in generale, rispetto alla domanda di chi ci sta davanti».

Un’attenzione, dunque, rispetto alla persona prima della diagnosi, dell’etichetta o della pena stabilita dal giudice. In modo che carcere e servizi di salute mentale possano essere qualcosa in più di semplici contenitori di malessere, ponti verso qualcos’altro, verso un futuro in cui non è per forza tutto già scritto, ma la strada si costruisce giorno dopo giorno. Senza più passi indietro.

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