Dalle guerre ai dazi doganali: cinque analisti leggono il futuro dopo l’elezione di Trump
a cura della redazione webIl giorno dopo la vittoria di Trump, neopresidente USA, ci si interroga sugli scenari che si apriranno, tra consolidate certezze (ossia tutto ciò che il tycoon ha dichiarato nelle scorse ore) e ragionevoli dubbi e interrogativi. Molti i potenziali fronti aperti, dalla politica internazionale, soprattutto rispetto alle guerre, alle scelte in materia economica, dalla tenuta della democrazia statunitense alla spinosissima questione dei dazi doganali, che preoccupa molto il mondo produttivo del Nord Est. Ecco, di seguito, cinque analisi sui fronti aperti
Putin ringrazia e avanza in Ucraina
Putin è meno imprevedibile di Donald Trump. Dopo che il portavoce del Cremlino ha assicurato che la pace è un’ottima prospettiva, ma non si fa in un giorno, ecco che da Mosca filtrano voci di un’offensiva di inverno dell’Armata rossa verso Kiev.
Lo scenario più probabile appare chiaro. Il nuovo presidente americano spingerà per fermare la guerra, senza tormentarsi per le richieste di Zelensky che, nel suo staff, tutti giudicano destinato a una sicura sconfitta. Di qui al 20 gennaio, giorno dell’insediamento del presidente alla Casa Bianca, lo zar Vladimir cercherà di guadagnare più terreno possibile, in modo di arrivare carico di conquiste al cessate il fuoco. Poi ci si siederà al tavolo e si proclamerà una fine delle ostilità che potrebbe attribuire alla Russia sino all’80 per cento del Donbass e oltre il 70 delle regioni di Zaporizhzhya e Kherson, senza contare la Crimea, già persa dagli ucraini. A quel punto, i cannoni smetteranno di tuonare, ma che tensioni e ostilità siano archiviate è tutto da vedere.
The Donald potrà spiegarsi ricordando le parole del padre fondatore Benjamin Franklin, uno per il quale «non ci sono mai state una buona guerra o una cattiva pace». I suoi elettori, fra i quali solo il 5 per cento è preoccupato della politica estera amministrata con i bombardamenti, penseranno che stia facendo davvero l’America nuovamente grande e non si preoccuperanno per le conseguenze, né per i 170 miliardi di dollari che Washington ha già speso per proteggere l’integrità ucraina.
È facile che in Pennsylvania saranno in pochi a ragionare su come Putin abbia il vizio di occupare i vicini di casa in nome del sogno imperialista di ricostruire una Grande Russia. Non si chiederanno se abbia in mente di invadere anche Lettonia e Lituania per ricongiungersi con Kaliningrad. Non si interrogheranno se il diritto e i valori fondanti dell’Europa sono caduti sotto le bombe nell’Ucraina orientale. Accoglieranno la “buona pace” con qualche rammarico di facciata per Zelensky e i suoi. Sino a una prossima guerra per la quale, se la Storia è maestra della vita, è solo questione di tempo.
I ricchi contratti per le forniture militari sconsiglieranno a Trump di guastare la Nato. Indebolire l’Europa che si è esposta e svenata per Kiev potrebbe invece sembrargli una buona idea. Nel risiko geopolitico, l’America ha bisogno di un solo grande nemico, la Cina, e preferisce un’Unione europea con la testa bassa, se non asservita. I partiti sovranisti e populisti gli stanno preparando la volata per indebolire il Vecchio Continente, sventolando il successo del presidente repubblicano come esempio vitale per continuare le battaglie nazionaliste.
Quando arriverà il conto economico dei nuovi dazi, oppure quello politico delle nuove pretese territoriali, potrebbe però essere tardi per tornare indietro.
Può darsi che Trump si riveli meno dirompente dell’ipotizzabile, come otto anni fa. Tuttavia, il suo ticket con Vance promette più contrapposizioni che armistizi. Gli islamici lo hanno votato, eppure il premier israeliano Netanyahu è convinto di aver trovato un partner che lo aiuterà a fare quello che vuole a Gaza, facendo sponda sul saudita bin Salmān per facilitare l’esito della sanguinosa diatriba. Biden gli aveva intimato di risolvere la questione umanitaria Onu prima del 12 novembre; ora Bibi ha tempo sino al 20 gennaio e gli analisti vedono arrivare una soluzione iniqua anche in terra palestinese.
«Nessuna pace è cattiva», dirà Trump. E l’Ue, poco pervenuta sinora, rischierà di compiere un altro passo indietro nel giubilo di quegli europei che, pur di contare in patria, sono disposti a cedere il potere a Washington, i diritti a Mosca e l’economia a Pechino.
Marco Zatterin
La democrazia indebolita
La vittoria di Donald Trump e del Partito repubblicano è più netta di quanto ci si attendesse. Questo non toglie che la società statunitense, già fortemente divisa da anni, si dimostri comunque spaccata in due.
A vedere dall’Europa, si può tendere a parlare in termini di una classica contrapposizione tra destra (repubblicana) e sinistra (democratica) e certo questa lettura è avallata da diversi elementi, prima di tutto i diritti civili: mentre i democratici si presentano come coloro che intendono preservare il diritto all’aborto, molti Stati repubblicani hanno introdotto in materia legislazioni punitive, addirittura feroci, anche se Trump ha cercato di mantenersi più vago, cercando di evitare di perdere troppi voti femminili ma senza sconfessare i suoi sostenitori.
Il tema che è veramente al centro della divisione della società americana è piuttosto un altro: la fiducia nella democrazia. L’ex presidente che sta tornando al potere non nasconde la sua intenzione di modificare radicalmente le regole del gioco. Sull’immigrazione ora ci tiene a precisare che gli Usa restano aperti agli ingressi legali, ma ha promesso la deportazione in massa di oltre dieci milioni di irregolari: una misura che, se attuata, comporterebbe il rischio di un vero e proprio stato di polizia.
Su altri temi ha agitato minacce confuse di “dittatura”, ma quello che è più da temere sono i progetti ben più definiti elaborati da diversi gruppi per attuarli all’ombra della sua presidenza: piani miranti a imporre un controllo assoluto, e potenzialmente irreversibile, sullo Stato federale. Una parte degli elettori di Trump vota repubblicano per tradizione, una parte per protesta contro i “fallimenti” (più percepiti che reali) dell’amministrazione Biden e perché poco convinti dalla candidatura Harris che, dopo un buon avvio, ha perso mordente anche per l’incertezza su alcuni temi chiave. Ma molti si sono schierati decisamente in favore di un “uomo forte” e (nella più antica democrazia del pianeta) per una riduzione del livello di democraticità.
A che cosa si deve questa tendenza? Un primo motivo è la globalizzazione dell’economia, che è avvertita come una minaccia al benessere e al futuro di molte famiglie, tipicamente quelle dell’America delle campagne e delle piccole città, mentre la popolazione delle metropoli, che in un’economia planetaria è già di fatto ambientata, non casualmente vota in prevalenza democratico. Trump è sempre stato fortemente isolazionista, per lui la “grandezza” degli Usa si esalta anche disinvestendo dai rapporti con il resto dell’Occidente, e promettendo barriere doganali prima di tutto contro la Cina.
Più pesante ancora è un altro problema: le crescenti diseguaglianze sociali, visibili anche in molte zone degli Usa sotto forma di un’impressionante quantità di homeless, di persone private di una casa. Questo porta moltissimi americani a vedere la democrazia come un inganno, dove non solo la parità, ma quella stessa “eguaglianza delle opportunità”, che era stata a lungo la bandiera della società statunitense, appaiono sempre meno credibili. Per quanto possa sembrare paradossale, molti reagiscono non votando per più eguaglianza, ma dando per scontato che nulla si possa cambiare in questo stato di cose, e schierandosi proprio con gli oligarchi più demagogici, come Musk e lo stesso Trump: in un Paese dove a contare sono i miliardari, appoggiamo i “nostri” miliardari.
Trump era il candidato di un partito mondiale dell’anti-democrazia, o delle “democrazie illiberali” per usare l’espressione contraddittoria lanciata da Orbàn: ha l’appoggio di Putin, di Netanyahu, di Salvini, dello stesso leader ungherese, che puntano ad allearsi con un’America che è sempre il punto di riferimento del pianeta, ma con sempre minore autorevolezza. La tendenza mondiale verso le autocrazie ha segnato un altro punto a suo favore.
Su una promessa di Trump è invece lecito nutrire forti dubbi: che porti più pace. A meno che intenda per “pace” darla vinta alla Russia, all’ala più violenta di Israele, e agli altri dittatori aggressivi che stanno ora festeggiando.
Peppino Ortoleva
A Chicago élite sotto processo
Cielo plumbeo e vento da Nord che sferza Chicago. La sala professori della facoltà di Giurisprudenza è invasa dalla luce. Le finestre a tutta altezza affacciano sul lago Michigan. L’arredamento è di design e alle pareti campeggiano opere d’arte donate da ex studenti illustri. Da un lato, una mostra fotografica racconta il ruolo del diritto nei cambiamenti sociali; sulla parete opposta, un grande quadro di Roy Lichtenstein fa da contraltare a un’ardita scultura in vetro di un artista messicano, che celebra l’integrazione tra i popoli.
Al centro della stanza, un autorevole professore mi accoglie mostrandomi la prima pagina del New York Times; scuote la testa: «Come è possibile che l’establishment continui a sottovalutare il popolo americano? I miei concittadini hanno votato contro l’élite democratica, che non ha fatto nulla per tutelare i più deboli».
Un suo collega più giovane non è affatto d’accordo. In fondo, il presidente Joe Biden ha lavorato bene per l’economia americana, che usciva stremata dalla pandemia: l’inflazione è finalmente diminuita; la disoccupazione è ai minimi storici e vi è stata una crescita costante.
Vero. Ma il problema è che tutti questi indicatori positivi non contano nulla quando il saldo bancario e il potere d’acquisto delle famiglie continua a diminuire. Negli ultimi quattro anni i prezzi del cibo sono aumentati del 24 per cento. Mese dopo mese la classe media si è impoverita ed è cresciuta la paura. L’angoscia per il futuro si è accompagnata alla crescente ostilità per chi viene visto come una minaccia, ossia gli immigrati. Un profondo conoscitore e interprete dell’America più profonda, l’attore e regista Clint Eastwood, ha detto e continua a dire: «Quanto meno un uomo è sicuro, tanto più è probabile che abbia pregiudizi estremi».
Ecco, sull’economia e sull’insicurezza derivante dall’immigrazione Donald Trump ha vinto le elezioni. Ha promesso di chiudere le barriere e di realizzare un rimpatrio di massa degli immigrati irregolari. Ha ribadito con determinazione che taglierà le tasse e proteggerà con i dazi il mercato americano. In uno degli ultimi comizi, Elon Musk ha annunciato un taglio di duemila miliardi di dollari dal bilancio federale, rilanciando la ricetta classica dei repubblicani: «Toglieremo il governo dalle vostre spalle e dal vostro portafoglio».
Con questi messaggi chiari e la credibilità rappresentata dal successo imprenditoriale di entrambi, Donald Trump ha conquistato dunque i voti decisivi: quelli delle contee rurali dei sette Stati in bilico, dove l’ex presidente ha ottenuto più voti di quattro anni fa.
Al contrario, Kamala Harris ha fatto peggio di Biden nelle roccaforti democratiche, ossia in quelle città che nel 2020 avevano compensato il voto delle campagne e delle periferie, assicurando la vittoria al presidente uscente. Non sono bastati il richiamo al rischio per la democrazia rappresentato dal suo avversario; né la rivendicazione della lotta per i diritti, che aveva spinto i democratici nelle elezioni di mid-term del 2022; né una campagna appoggiata da tante star dello spettacolo e della musica e dai principali media.
Alla fine, ha pesato il giudizio molto negativo espresso dagli americani sull’amministrazione in cui lei ha rivestito un ruolo di primo piano e il colpevole ritardo con cui i democratici hanno provato a trovare una soluzione alternativa a Biden.
Prima di uscire dalla sala professori, mi chiedono se in Italia la presidente del Consiglio sarà contenta per l’esito delle elezioni. Forse sì, ma ho l’impressione che non saranno tempi facili per l’Europa e per l’Italia.
Mitja Gialuz, Visiting Scholar Northwestern University
L’era dei dazi un guaio globale
I risultati delle elezioni politiche americane ci offrono diversi spunti di riflessione in chiave economica. Il primo ha a che fare con l’inflazione e con l’accentuarsi della divisione tra i vincitori e i vinti nell’economia americana contemporanea. L’inflazione negli Stati Uniti ha registrato valori medi vicini al 10% nel 2022 ed è scesa al 4% solo l’anno scorso. Come ben sappiamo, l’inflazione è una tassa per le classi meno abbienti, proprio quelle fasce di popolazione che sono da tempo escluse dal circuito dell’economia americana che funziona.
Ho toccato con mano gli effetti dell’inflazione americana nei giorni scorsi, pagando 30 dollari una colazione per due in uno Starbucks nella periferia di Miami. Sono prezzi che si riflettono oggi in ogni aspetto della vita quotidiana oltreoceano e che inevitabilmente penalizzano chi vive e lavora ai margini dei grandi centri economici del Paese. Rispetto a qualche anno fa, la dimensione di questi luoghi, che a tutti gli effetti rappresentano le nuove periferie nell’economia della conoscenza odierna, si sta ampliando.
Lo possiamo leggere chiaramente nella mappa del voto presidenziale di martedì: New York, Massachusetts e California vanno ai Democratici, gli Stati del Sud, quelli centrali e il Mid-West ai Repubblicani. Sono queste le regioni economicamente meno dinamiche, che soffrono ancora la complicata transizione da un modello economico industriale a uno post-industriale. Donald Trump da anni promette di riportare negli Stati Uniti quei lavori che sono stati spostati in Messico e in Asia e che generalmente riguardano la manifattura. Sono lavori che difficilmente torneranno a casa e che sono stati sostituiti da funzioni ad alto valore aggiunto, come il design, il marketing e la finanza. Che però impiegano meno persone, generalmente professionisti qualificati che si concentrano nelle grandi città metropolitane come San Francisco, Los Angeles, Boston e New York. Luoghi dove ha vinto Kamala Harris, ma che rappresentano evidentemente la minoranza del Paese.
Nonostante le produzioni di legno e acciaio non torneranno nel Mid-West o nella Bible Belt del Sud-Est, Trump continuerà con una linea economica orientata a proteggere le industrie domestiche, sperando in questo modo di rafforzare la competitività delle imprese di casa. Per far ciò, rafforzerà con ogni probabilità i dazi sulle importazioni.
Si parla di dazi che potranno arrivare fino al 60% per beni prodotti in Cina e al 20% per tutti gli altri beni importati. All’interno di quest’ultima categoria potrebbero dunque rientrare anche i prodotti manufatti in Italia, impattando significativamente sulla capacità delle nostre imprese di esportare negli Stati Uniti. È uno scenario plausibile, se non addirittura probabile, e che penalizzerebbe severamente le nostre esportazioni, ancora oggi fortemente legate al mercato americano.
Per evitare alti dazi doganali le imprese italiane dovrebbero investire direttamente nel mercato di destinazione, attivando strutture produttive o di assemblaggio in loco. Sono scenari strategici possibili ma al contempo particolarmente complessi, non fosse altro per la dimensione media dell’impresa manifatturiera italiana e per la sua generale limitata struttura finanziaria e manageriale.
È presto per capire quali settori saranno coinvolti da queste nuove regole del commercio internazionale. Durante la prima presidenza Trump le esportazioni europee non furono particolarmente colpite. L’aspettativa, tuttavia, è che questo secondo mandato potrà essere diverso e intensificare una serie di politiche economiche protezionistiche che fino a oggi abbiamo conosciuto solo marginalmente.
Giulio Buciuni
Meloni sorride, ma è Salvini a gongolare
Povera Giorgia Meloni, verrebbe da dire. Sì, perché se «ogni parola ha conseguenze e ogni silenzio anche», come insegna la fulminante lezione di Jean Paul Sartre, alla premier non basterà aver accompagnato le sue congratulazioni a Donald Trump con il termine «sincere». Anzi, definendole «le più sincere», come a scusarsi. Senza dubbio, c'è da credere che questi auguri siano sentiti nel profondo, che l'istinto di una leader di destra sia stato quello di esultare, al pari dei suoi simili (politicamente parlando), i sovranisti europei Orbàn, Le Pen ed Erdogan.
A farle pesare quanto questo suo endorsement sia tardivo e quanto il suo silenzio prima del voto americano non sarà dimenticato dal permaloso Trump è stato, guarda caso, Matteo Salvini. Vantando di essere stato il solo a sostenerlo ha messo di fatto all'indice Meloni, che si dovrà far perdonare i bacetti sul capo ricevuti con sorriso beato da Joe Biden.
Quando il Capitano rammenta che «altri nel centrodestra la pensavano in maniera diversa», colpisce il vicepremier suo rivale al centro, Antonio Tajani, ma anche la sua rivale a destra, Giorgia.
Poi c'è la politica. Alla buona novella che la destra sovranista trionfa in tutto il mondo, all'intima soddisfazione di aver puntato sulla carta giusta votando "no" a Ursula von der Leyen, scommettendo su una vittoria di Trump, farà riscontro una real politik dura da affrontare per la premier: dovrà farsi in quattro per difendere il made in Italy dai dazi che il tycoon imporrà, non solo alla Cina, ma anche ai Paesi europei.
Una stima di Prometeia calcola «un'imposizione extra alla dogana per i beni del made in Italy pari a 9 miliardi di euro», un macigno sulle teste delle nostre imprese. E mostra come Italia e Germania siano i Paesi che più hanno da perdere sul piano commerciale, con possibili conseguenze sul Pil. Quindi, tempi duri in arrivo per le casse dello Stato.
Se non bastasse questo compito, improbo da affrontare con le carte della diplomazia (che poco conta per Trump e i suoi), Meloni tra un mese dovrà gestire una brutta grana sull'invio di armi all'Ucraina. A dicembre si voterà il rinnovo dei finanziamenti e sentite cosa dice Salvini: «Non sono più necessarie nuove armi a Kiev».
Auguri, verrebbe da dire.
Anche perché il leader del Carroccio avrà un alleato prezioso, "Giuseppi" Conte. Baciato da Trump nel 2019, con un endorsement che fu decisivo per far tornare in sella l'avvocato del popolo dopo la caduta del suo primo governo. Caduto per mano proprio di Salvini, guarda i casi della storia. Cosa farà Conte è facile prevederlo, vista l'ostilità da sempre espressa sul tema Ucraina. I maligni ricordano che la Cnn nel 2019 rivelò che Conte fosse schierato con Trump per il ritorno di Mosca nel club dei grandi. Quindi si profila un'alleanza giallo-verde anti-Ucraina, di cui in Europa farà le spese in termini di affidabilità e credibilità proprio il governo di Giorgia Meloni.
E qui entra in ballo Elly Schlein, che insieme alla sinistra mondiale riceve una batosta epocale. Gli spifferi dal Parlamento restituiscono l'immagine di un "Giuseppi" come «il più felice di tutti, in quanto l'unico tra i leader italiani pienamente accreditato con Trump». E riportano il sospetto che Conte abbia mollato il "campo largo" di Elly proprio in vista del ritorno del suo protettore politico d'oltreoceano. Facile prevedere che si allargherà ancor di più il solco tra i 5 stelle e il Pd. Con buona pace dei fautori dell'asse preferenziale tra le principali forze progressiste e con sommo gaudio della destra al governo.
Carlo Bertini
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