Roberto Moroso: «Dazi? Preoccupati sì, ma noi siamo l’Italia»

Alla vigilia del Salone del Mobile di Milano, parla il presidente di Moroso, azienda friulana produttrice di arredi di design. Il gruppo ha chiuso il 2024 con ricavi consolidati a 25 milioni di euro. Esporta in 60 Paesi, gli Usa sono il primo mercato 

Maura Delle Case

Gli Stati Uniti sono il primo mercato estero per Moroso, iconico brand dell’arredamento nato in Friuli nel 1952 e divenuto nel corso degli anni un punto di riferimento nel mondo dell’arredamento di design, un battistrada nel campo dell’innovazione, richiamo per le più grandi firme dell’architettura internazionale. Il primato del mercato a stelle e strisce per Roberto Moroso, figlio del fondatore e oggi presidente dell’azienda, che gestisce insieme alla sorella Patrizia – lei art director – e al ceo Damir Eskerica, è oggi motivo di preoccupazione alla luce dei dazi al 20% imposti dall’amministrazione Trump alle merci importate dall’Europa. «Siamo perplessi e non solo per l’effetto che avranno i dazi sul costo finale delle merci, ma per la possibile reazione emotiva, di pancia dei consumatori americani» precisa l’imprenditore che poi però frena: «Dobbiamo aspettare per giudicare e nel frattempo non perdere la testa, ma anzi, continuare a lavorare su quel mercato, cosa che faremo già la prossima settimana a Milano, in occasione del Salone del mobile, accogliendo i tanti buyer in arrivo e poi il mese prossimo a New York dove andremo come tante imprese sotto la bandiera del Made in Italy. Una freccia all’arco delle nostre aziende a sentire Moroso convinto del «grande appeal che il “fatto in Italia” ha sugli americani. «Chi vuole un mobile made in Italy oggi, lo deve comprare da un’azienda che lavora qui – rivendica –, forte di una componente di manualità che altrove non esiste».

Quando Moroso dice “qui” lo intende alla lettera. Il suo ufficio oggi si trova dove un tempo c’era la casa di famiglia, lungo viale Tricesimo a Tavagnacco. Una grande fotografia in bianco e nero, scattata negli anni 70, mostra l’abitazione circondata dai corpi di fabbrica dedicati alla produzione: un tutt’uno, come nel caso di tante aziende del Belpaese.

Dagli uffici alla produzione è un attimo. Qualche porta tagliafuoco e si entra in un mondo materico, colorato, popolato di forme inconsuete, sedute, divani, tavoli, destinati immancabilmente a diventare prodotti di culto.

La mano dei dipendenti – 113 in tutto in Friuli (più 13 nelle consociate) che lui saluta per nome – è l’essenza di quest’azienda che produce tutto in Friuli.

Un elemento che farete pesare, insieme al carico di innovazione, design e qualità condensati nei vostri prodotti...

«Quando Trump immagina di portare le aziende a produrre negli Usa non valuta che i nostri prodotti sono fatti in Italia con il nostro know how. Negli Usa stiamo lavorando intensamente per brandizzare sempre più l’azienda e continueremo a farlo. E come detto, già al Salone incontreremo i buyer americani e sentiremo da loro cosa vogliono fare: tanti negozi hanno in gran parte fornitori europei, sono specialisti e dunque toccati in pieno da questa situazione».

Se guardiamo ai mercati, quali sono per voi quelli strategici oltre agli Usa?

«La Cina e in generale il Far East, poi l’Europa e il Medio Oriente, molto importante quest’ultimo soprattutto nel contract. In Cina siamo presenti da anni, è un mercato che funziona, al netto dell’attuale congiuntura. Il Far East pesa per un buon 20% sui nostri ricavi, viene subito dopo gli Stati Uniti. In quell’area abbiamo ben 15 negozi monobrand, ai quali si aggiungono un flasghip store a Milano, Londra e New York. In generale, siamo presenti in 70 Paesi del mondo».

Com’è andato il 2024?

«È stato un anno di calo per tutto il settore, alla fine però ci sono stati dei risvegli. Abbiamo chiuso con un fatturato consolidato di gruppo di circa 25 milioni di euro, in calo del 12% sul 2023, legato soprattutto alla frenata dell’estero. Il mercato interno invece ha tenuto. Ora, a parte gennaio che è un mese di ripresa ed è sempre difficile, febbraio e marzo sono stati positivi, abbiamo realizzato il 16-17% in più rispetto all’anno scorso, prevalentemente dal segmento contract».

Veniamo al Salone, che prende il via domani...

«Noi saremo al Fuorisalone: abbiamo un grande showroom in centro città e dal Covid in poi abbiamo deciso di utilizzare quello spazio. I tempi non consentono di mantenere un negozio di 800 metri e anche uno spazio di 1.000 in fiera. Sfruttiamo la vetrina che abbiamo. Presenteremo una serie di prodotti per il mondo della casa, sapendo che il retail soffre ancora ma che si riprenderà, e altri invece dedicati al mondo del contract, degli alberghi, che ha avuto un rimbalzo importante dopo la pandemia».

Cosa si aspetta da voi il pubblico?

«Di essere unici, eccezionali, un punto di riferimento per l’innovazione. A Milano presenteremo moltissime cose. Nuovi prodotti, nuovi materiali e rivestimenti, tante collaborazioni con i designer e in generale il piacere di raccontare una storia nuova ogni anno, fatta di contaminazioni con l’area, la cultura, la moda. Ma fatta, a differenza del fashion che è stagionale, per durare nel tempo. Ci piace, tornando all’innovazione, giocare il ruolo di caposquadra, abbracciare il cambiamento, e questo possiamo anche farlo perché la nostra è un’azienda famigliare, più flessibile e certamente più libera nelle sue scelte rispetto al grande mondo dell’arredamento grazie al posizionamento in una fascia molto alta».

Tornando al Friuli e al valore della manualità, pagate anche voi la difficoltà di trovare personale?

«È certamente un tema, che stiamo affrontando insieme al cluster legno arredo della regione e a una decina di aziende del settore che vivono lo stesso problema. Allo scopo è stata avviata una scuola di cucito dalla quale, ogni anno, prendiamo un paio di persone. Purtroppo l’età media è molto alta».

Perché secondo lei i giovani non vogliono fare più questi mestieri?

«Forse perché rispetto ad altri comparti manifatturieri nel nostro la componente manuale è ancora preponderante. Ma è proprio quella manualità, alla fine, il nostro punto di forza».

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