Operazione al cervello da sveglio: alla scoperta dell’awake surgery
Nella Neurochirurgia dell’Azienda Ospedale Università di Padova: «Così salviamo funzioni come parola e movimento»
«Questa è una mano» dice Marco – lo chiameremo così – un omone di 32 anni abbondantemente sopra il quintale, dopo aver guardato un’immagine su un computer. E tutti, attorno a lui, sorridono compiaciuti sotto la mascherina.
Bizzarro, non fosse che mentre pronuncia queste parole, Marco è steso su un fianco sul tavolo operatorio della Neurochirurgia dell’Azienda Ospedale Università di Padova con il cranio aperto, sottoposto a un intervento “in awake” – da sveglio – per la rimozione di un tumore cerebrale.
Un’operazione che proprio sfruttando la collaborazione del paziente, consente di rimuovere la lesione con la certezza di preservare – in questo caso – parola e movimento che si originano in quell’area.
«Grazie alle tecnologie sempre più avanzate e al dialogo in tempo reale del neuronavigatore con il nuovo microscopio operatorio siamo in grado di sapere sempre esattamente dove siamo rispetto alla lesione, mentre le ulteriori fluorescenze ci consentono di indagare meglio gli spazi più nascosti» spiega il dottor Francesco Volpin mentre effettua un’ultima ispezione dei macchinari.
Il neoruchirurgo si occuperà personalmente della rimozione del tumore assistito dalla collega Angelica Rizzoli.
Una delle complessità di questo tipo di intervento, è mettere inseme un’equipe composta da tante professionalità diverse: sono una dozzina gli operatori complessivamente impegnati in sala per questa operazione.
La preparazione
Il paziente arriva in sala operatoria, al quarto piano della Neurochirurgia, poco prima delle 8: «Non ho mai dormito per l’ansia» rivela ai sanitari che gli chiedono se sia nervoso «non vedo l’ora che sia finita».
Eppure, malgrado i comprensibili timori, Marco dimostra una certa baldanza, scherzando – persino al momento del posizionamento del catetere vescicale – con gli operatori che lo preparano.
Del resto, interventi di questo tipo non sono per tutti: prima del via libera è necessario assicurarsi che il paziente sia in grado di sopportare psicologicamente l’idea di ritrovarsi sveglio, immobile e con la consapevolezza di avere il cranio aperto.
«A monte c’è una sorta di selezione» sostiene l’anestesista Marina Munari «non tutti i pazienti possono essere sottoposti ad “awake” se si prevede che nella fase di risveglio non possano essere collaboranti e tollerare l’idea di avere la testa fissata».
Marco viene quindi girato sul fianco destro – per poter esporre agevolmente la parte della lesione, a sinistra – un processo laborioso, complice la sua stazza, soprattutto in rapporto con le dimensioni del tavolo operatorio.
La testa viene fissata con dei perni, il corpo puntellato per assicurarsi che resti immobile.
«Questo intervento può incidere sulla patente?» domanda, improvvisamente pensieroso. «Prima rimuoviamo il problema e poi ci pensiamo» gli risponde con dolcezza l’anestesista tenendogli la mano mentre lui scivola in un sonno senza sogni. Alle 8.47, Marco dorme.
L’intervento
L’operazione è sostanzialmente suddivisa in due fasi, una tradizionale, in cui viene praticata la craniotomia al paziente completamente sedato, seguita da una seconda che inizia con il risveglio.
«In questa fase sospendiamo i farmaci di sedazione e il paziente viene “superficializzato” fino al risveglio, viene estubato e a quel punto ha inizio l’asportazione della lesione con i test cognitivi per essere più radicali possibile» prosegue Munari.
Quindi, con il paziente sempre steso sul fianco sotto a un grande telo chirurgico, comincia la valutazione.
«Le fasi di valutazione cognitiva sono tre» racconta la logopedista Serena De Pellegrin «prima, durante e dopo l’intervento. La valutazione intraoperatoria serve ad assicurare che non ci siano conseguenze o errori specifici attraverso una comunicazione costante con il chirurgo».
Marco viene quindi svegliato dal suo sonno più profondo e comincia la fase di mappatura, in cui il dottor Volpin invia delle stimolazioni elettriche in punti precisi del cervello per identificare le aree cerebrali corrispondenti ai vari compiti e capire dove l’eventuale asportazione possa risultare dannosa per la parola o il movimento.
Poco distante Riccardo Ortolan tecnico di neurofisiopatologia segue in diretta l’elettroencefalogramma per prevenire eventuali crisi epilettiche che si potrebbero originare da questa stimolazione.
A Marco viene chiesto di contare, quindi ecco lo scorrere delle immagini che deve riconoscere: «Questa è una casa. Questa un’automobile. E questo ze un sorze» prosegue suscitando un’ilarità collettiva che è un misto di aperta sollecitudine e tifo silente.
Quindi si passa al movimento – «stringi la mano» –, dopodiché il chirurgo comincia ad asportare la lesione, mentre il direttore della Neurochirurgia, Franco Chioffi, arrivato dalla sala accanto dove ha appena preso parte a un intervento, osserva i monitor, domanda aggiornamenti, suggerisce. E si prosegue: ancora, casa, macchina, sorze.
Marco lamenta «un po’ di mal di testa», e quando sembra scivolare verso il torpore viene sollecitato.
«Un momento» sbotta bonariamente «ze drio operarme el sarveo». Della serie: provate voi. Ogni tanto il dottor Volpin lo rassicura - «sta andando tutto bene» – mentre continua a rimuovere la lesione – una massa di 3,5 centimetri per 4,5: «Il cervello è plastico, si riassesta» spiega Chioffi «quello che non perdona è se viene toccata un’arteria o sconnesse delle aree».
Ecco quindi il momento della verità con l’attivazione delle nuove fluorescenze: «Somministriamo dei metaboliti fluorescenti che permettono di individuare eventuali aree ad alto grado di malignità» sostiene Chioffi.
Per un secondo nessuno sembra respirare. Ma non succede niente: a illuminarsi sono solo alcune garze inserite nel campo operatorio: «Molto bene» commenta «non ci sono aree ad alto grado, non è un glioblastoma».
Marco viene di nuovo sedato per l’ultima fase. Quindi il ritorno in reparto.
«Ricordo che ero in sala operatoria, stavo bene e dovevano ancora tagliarmi i capelli» racconta lui il giorno successivo, la testa avvolta nelle bende, la memoria dei “compiti” affidatigli durante l’intervento «arriva sfocata», né ha ricordo di dolore. Quindi la prova della verità: «Lo rifarebbe?» gli chiedono. «Sì» risponde lui senza incertezza. Dopodiché, una volta basta e avanza.
«Aumentano malattie e attrattività extra regione»
Sradicare il più possibile la malattia, preservando le funzioni del malato. È questa una delle sfide che si pone la Neurochirurgia dell’Azienda Ospedale Università guidata dal dottor Franco Chioffi.
Dottore, cos’è l’awake surgery?
«È una tecnica anestesiologica consolidata che ci consente di monitorare le funzioni del paziente in tempo reale quando andiamo a rimuovere una lesione: così possiamo spingere la chirurgia verso la massima radicalità nel rispetto della funzione stessa».
In questo vi aiuta il nuovo microscopio operatorio, che caratteristiche ha?
«Consente di interfacciarci direttamente con il sistema di neuronavigazione in modo da sapere esattamente dove ci troviamo rispetto alla lesione. Inoltre ha due fluorescenze che permettono di evidenziare all’interno della lesione eventuali aree ad alto grado di malignità poiché queste sostanze si fissano alle cellule tumorali maligne».
L’awake surgery è solo parte della vostra attività. Quali sono le nuove sfide?
«In campo oncologico cercare di togliere il più possibile la malattia rispettando le funzioni perché al centro della nostra attività c’è il paziente, non la risonanza magnetica o la lesione. Dobbiamo cercare di fare interventi chirurgici il più possibile sicuri. E la gran quantità di tecnologia introdotta in sala ci consente di migliorare questo aspetto».
Quanti interventi eseguite complessivamente all’anno?
«Le due sale lavorano tutti i giorni e consentono poco più di mille interventi».
C’è tanta attesa?
«Purtroppo sì. I pazienti sono tanti e non dobbiamo fare i conti solo con l’attrattiva di Padova che già è un territorio molto popolato, ma anche con pazienti da fuori regione. Quindi i malati sono molti».
All’origine c’è anche un incremento delle patologie?
«In linea generale sì perché tante malattie che prima non venivano intercettate per i limiti della diagnostica neuroradiologica, sia in termini di quantità che di qualità, con la diffusione sul territorio di tac e risonanze magnetiche sono stati superati».
Parlava di attese, quali sono i numeri?
«Al momento la lista è di 500 pazienti. La neurochirurgia è molto vasta, non tratta solo problemi cerebrali ma anche patologie dalla colonna vertebrale, dalle ernie del disco ai tumori del rachide, problemi vascolari come aneurismi e malformazioni cerebrali e spinali. E i malati sono molti».
Andrete in sala ibrida anche voi?
«È il nostro sogno. È quello che una Neurochirurgia centrale come quella dell’Azienda Ospedale Università dovrebbe avere: una tac e un angiografo intraoperatorio sono due must. Ci permetterebbe di fare tanti interventi anche assieme alla Neuroradiologia».
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