«Così il cancro ha reso la mia vita un atto politico». Laura Marziali e il suo impegno per l’oblio oncologico

Dopo la diagnosi e le cure al Cro di Aviano («il porto dove ho attraccato le mie paure») è diventata attivista e divulgatrice, arrivando a promuovere la norma in Parlamento: «Ho capito di voler essere agente del cambiamento»

Edoardo di Salvo
Laura Marziali
Laura Marziali

Quella di chi si vede diagnosticato un cancro è una storia di vita. Un cancro chiude porte e ne apre altre, rende fragili e dà forza, porta smarrimento e sicurezze. Proprio come fa una vita. Lo sa bene Laura Marziali, attivista e divulgatrice. Ha 28 anni quando nel 2017 le viene diagnosticato un tumore: è un momento di cambiamento personale, di dubbi, di incertezze come ne abbiamo tutti. Da lì la malattia, il percorso di cura, le difficoltà, la rinascita.


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Poi la scoperta: quanto le è accaduto le ha spalancato una nuova strada, quella dell’attivismo e della sensibilizzazione. Una strada su cui oggi si impegna ogni giorno, con un’associazione di volontariato, la C’è tempo odv, tramite la quale partecipa a eventi, campagne e conferenze, portando in giro per l’Italia uno spettacolo teatrale,  e che nel 2023 la porta in Parlamento per promuovere la necessità di una norma sull’oblio oncologico, divenuta legge nei primi mesi del 2024.

La domanda più banale: perché?

«Dal momento in cui dopo la malattia sono pian piano tornata a una forma di normalità ho iniziato a vedere la mia vita come plurale, in relazione con gli altri. È diventata politica in ogni aspetto. Io non mi identifico con la mia malattia, ho capito di essere altro e di voler diventare agente del cambiamento. Quello che mi è successo mi ha indicato questa strada».

Cosa le ha dato consapevolezza di questa necessità?

«Ho scoperto la marginalizzazione che deriva dalla malattia e che le informazioni su di essa non arrivavano a tutti gli strati della società. Alcuni episodi che mi sono capitati mi hanno reso consapevole di vivere una discriminazione».

Quali?

«Quando ho ripreso le fila della mia vita, delle relazioni, della amicizie che avevo messo in pausa ho avvertito negli altri il timore di rapportarsi con me, sul lavoro sono stata messa da parte. Ma è dopo qualche anno che ho compreso il fenomeno nella sua portata. Sono andata in concessionaria perché dovevo acquistare una macchina: su alcuni moduli da compilare mi vengono chieste informazioni sul tumore, e il finanziamento mi viene negato. All’inizio non ho capito fosse legato a quello, pensavo semplicemente di non rispettare alcuni requisiti economici».

Com’è ha capito che la causa era la malattia?

«Dopo un po’ di tempo inizio a effettuare alcune ricerche su Google, qualche tentativo a vuoto poi abbino due parole chiave : “cancro” e “discriminazione”. Mi si apre un mondo. Trovo una raccolta firme della fondazione Aiom, scopro di aver subito una discriminazione e che molti avevano avuto lo stesso trattamento. Inizio a capire che c’erano moltissimi altri ambiti a cui essa si applicava, come concorsi pubblici, adozioni, ambiente universitario. Contatto Aiom, e insieme facciamo una diretta social in cui si parla forse per la prima volta di oblio oncologico».

E da lì inizia la sua “carriera da attivista”, che tra le altre cose, l’ha vista impegnarsi nella proposta di legge sull’oblio oncologico, la 193/2023, promulgata circa un anno fa. Ci racconta in cosa consiste?

«Il concetto di fondo è che in alcuni contesti le persone devono dimenticarsi della malattia. Più nello specifico, la legge determina che chi ha vissuto un cancro non deve dichiararlo trascorsi dieci anni dall’ultima terapia attiva (cinque se la diagnosi è arrivata prima del compimento dei 21 anni di età. Questo in linea generale, poi i decreti attuativi hanno abbassato il termine per alcuni tipi di tumore».

In Parlamento l’approvazione è stata unanime e accompagnata da applausi. Fuori però qualcuno ha espresso dubbi legati alla lunghezza del termine, giudicata eccessiva...

«Sì, ma i medici ci hanno spiegato che dieci anni è la media della durata dei follow up (i controlli a cui vengono sottoposti i pazienti per escludere recidive, ndr). Poi credo sia importante sottolineare una cosa: non esiste una legge che vieti di concedere finanziamenti o disporre le adozioni a chi ha superato la malattia da un tempo inferiore. La norma indica semplicemente il periodo trascorso il quale cade l’obbligo di dichiararlo in determinati contesti».

Obiettivo raggiunto, quindi?

«Si tratta di un primo step, ma c’è ancora della strada da fare. Dobbiamo pensare, ad esempio, a chi vive una patologia oncologica cronica, e che si porta sulle spalle lo stigma della malattia per tutta la vita».

Facciamo un passo indietro e torniamo al momento in cui ha scoperto del tumore. Com’è cambiata la sua vita?

«È iniziato un secondo tempo. Pian piano ho iniziato a maneggiare la materia, e ho capito che la mia vita sarebbe cambiata per sempre». 

Per l’operazione ha scelto il Cro di Aviano, un centro d’eccellenza nazionale per le cure oncologiche

«Lo definisco il porto dove ho attraccato le mie paure. L’ho scelto anche per la posizione, sotto le Dolomiti. Mi sembrava di essere distante da tutto. Con il Cro e con le persone che ho incontrato, dal personale medico fino alla compagna di stanza ho instaurato un rapporto viscerale. Quando ho ricevuto la lettera di dimissioni ho pianto, non volevo uscire».

Un rapporto profondo anche con il Friuli quindi…

«Il Friuli mi ha restituita alla vita. Ogni anno a novembre, il mese in cui otto anni fa mi sono operata torno lì. Le confesso una cosa che non racconto spesso…».

Dica

«Nel 2019, quando mi sono completamente ripresa sono venuta lì e - oltre ad andare a trovare le persone del Cro – ho deciso di fare il Cammino Celeste. A piedi, da sola, da Aquileia al Monte Lussari. È stato il mio modo per ringraziare quella terra».

Tornando al suo percorso dopo la malattia, ha avvertito differenze nel modo in cui gli altri hanno iniziato a vederla da quando ha iniziato a parlarne in pubblico?

«È cambiato qualcosa perché sono cambiata io. Ho cominciato a educare le persone e ho compreso l’importanza di dire quando qualcosa mi fa stare male. Ho instaurato con gli altri relazioni libere».

Per chiudere, perché è importante raccontare la propria esperienza con il cancro?

«Premetto che rispetto chi non ha voglia, forza o necessità di farlo. Al contempo penso che le storie possano essere motivo di cambiamento, aiutano la ricerca e la riabilitazione. L’obiettivo dev’essere pensare al post e rompere il silenzio istituzionale. E per riuscirci occorre partire dal basso».

 

 

 

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