Covid cinque anni dopo, il primario: «Non è stato solo un brutto sogno, le mascherine sarebbero ancora utili»
Il professor Vianello ha coordinato le Terapie Semintensive venete durante l’emergenza: «Ricoveri per polmoniti influenzali, bisogna avere rispetto per la salute degli altri»
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«Molte persone si comportano come se il Covid fosse stato solo un brutto sogno, probabilmente è la reazione che suscitano eventi di tale portata, ma questo atteggiamento produce degli effetti».
Il professor Andrea Vianello, direttore della Fisiopatologia Respiratoria dell’Azienda Ospedale Università di Padova, è stato in prima linea nella guerra al Covid, guidando l’espansione dell’esperienza della Terapia Semintensiva a tutti gli ospedali del territorio regionale, servizio di cui poi è diventato coordinatore: uno dei tasselli che ha reso efficace il modello veneto. Le Semintensive, infatti, hanno consentito di intercettare i pazienti prima che si aggravassero, evitando di saturare le Terapie Intensive e di mettere così in crisi il sistema.
Professor Vianello, siamo al quinto anniversario del primo morto di Covid, cosa ricorda di quelle prime ore di emergenza?
«Ricordo chiaramente l’incertezza, la difficoltà e lo sforzo di interpretare quello che stava succedendo. E, immediatamente dopo, la preoccupazione di riuscire a trovare il modo di reagire, riorganizzandoci secondo le nuove necessità in maniera efficiente. Il Veneto ha avuto forse la fortuna, ma più verosimilmente il merito di capire e riorganizzarsi, cosa che non è avvenuta altrove. Non solo: in Azienda esisteva già una terapia Semintensiva respiratoria e questo ha reso più facile dedicarla al Covid».
Sta dicendo che la razionalità ha prevalso sull’emozione?
«Sì, eravamo pronti a fronteggiare l’onda montante prima ancora di aver capito davvero l’impatto che avrebbe avuto».
Qual è il ricordo più nitido di quel periodo?
«Il problema di mettere un limite alle cure. Fortunatamente noi non abbiamo mai dovuto far fronte a una mancanza di risorse sanitarie tuttavia, per la prima e unica volta fino a oggi, ci siamo trovati a fare i conti con una malattia che oltre un certo limite diventava incurabile. Ci si è posto in modo drammatico il tema “dell’accanimento terapeutico”, ovvero di quanto sensato e ragionevole fosse spingere le cure senza la minima aspettativa di guarigione. Normalmente, infatti, il nostro sistema dà una possibilità estrema di fornire le cure alle persone, abbiamo tantissimi strumenti. Eppure con il Covid c’erano casi in cui, per quanto ci sforzassimo, oltre un certo limite non c’era possibilità di tornare indietro».
E come avete affrontato la questione?
«Con discussioni multidisciplinari cui partecipavano intensivisti, infettivologi e tutti gli specialisti in grado di dare una mano a capire quali fossero le possibilità di sopravvivenza per il paziente».
Cosa ha insegnato la pandemia alle persone?
«Probabilmente, per un principio di reazione, la popolazione generale ha rimosso il Covid. È davvero difficile sentirne parlare ancora, anzi. E anche gli accorgimenti che si avevano al tempo sono spariti completamente: se oggi si vede una persona con la mascherina la si guarda come se fosse appestata. Eppure questa assoluta rimozione ha qualche ricaduta sulla salute tutt’altro che banale: anche se quest’anno le malattie respiratorie sono andate un po’ meglio, abbiamo avuto dei ricoveri per polmoniti influenzali. Su questo fronte l’uso delle mascherine sarebbe stato un aiuto pratico, semplice e facilmente accessibile».
Chi gira con la mascherina rischia di essere schernito, quasi fosse un menagramo.
«Il problema è che, malgrado quello che abbiamo vissuto, non sono cresciute la cultura del rispetto per il singolo e la necessità di tutelare gli altri. Oggi vediamo gente che va in pizzeria a tossire senza ritegno, ma basta guardarsi intorno negli ascensori degli ospedali, che sono luoghi di massima fragilità, per vedere gente che, malgrado sia affetta da virus respiratori, se ne va in giro senza la minima sensibilità nei confronti della tutela dell’altro. Eppure basterebbe davvero così poco, sarebbe sufficiente porsi qualche limite. E invece chi gira con la mascherina viene guardato male».
Nell’organizzazione sanitaria cosa è cambiato?
«L’occasione ha spinto giocoforza la telemedicina, laddove l’accesso in ospedale per alcune persone durante la pandemia era molto rischioso. E questa è una prassi che si sta allargando ulteriormente. E poi c’è stata la diffusione delle Terapie Semintensive che prima del Covid non erano molto presenti. La pandemia ha fatto capire che, a fronte del peggioramento dei pazienti, passare direttamente dalle Malattie Infettive alla Terapie Intensive finiva per saturare queste ultime con i problemi conseguenti. Con le Semintensive siamo stati in grado di curare fuori dalle Rianimazioni tutte le persone che erano trattabili senza essere intubate, ad esempio con l’uso di ossigeno ad alti flussi e ventilazione non invasiva. A livello medico, inoltre, è rimasta una maggiore sensibilità rispetto alle misure di controllo e contenimento delle infezioni, con più attenzione sul fronte dell’isolamento e della prevenzione del contagio. Diversamente, non si è consolidata come prassi quella flessibilità che con tanta fatica e sforzo avevamo raggiunto».
Che malattia è il Covid oggi?
«Tra settembre e novembre abbiamo avuto una piccola riacutizzazione che ha richiesto dei ricoveri, soprattutto tra le persone con patologie pregresse, in particolare ematiche. Oggi complessivamente è una malattia simil influenzale che richiede un tempo più lungo per guarire dalla stanchezza e c’è ancora una piccola quota, sempre minore, di malati che si porta dietro gli effetti della patologia».
Nuova pandemia, siete più preparati o spaventati?
«Più preparati. Con la Regione abbiamo elaborato protocolli operativi che ci permetteranno di rispendere meglio in caso di emergenza, dal punto di vista organizzativo. Ma anche come medici siamo pronti: nel mio reparto, sebbene non siano obbligatori, tutto il personale usa i presidi di protezione individuale. Ora siamo quasi stupiti che si sia stato un tempo in cui non usavamo le mascherine, malgrado le polmoniti influenzali ci siano sempre state». —
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